Vibo, l’ultimo struggente saluto al «compagno Alfredo»
Stamani i funerali di Federici, dirigente politico e sindacale. Il ricordo – toccante e fedele – di monsignor Fiorillo. L’abbraccio ideale e fortissimo della città alla famiglia. Le lacrime di quanti hanno condiviso con lui una vita di impegno politico e sindacale per i diritti degli ultimi
L’ultimo saluto si consuma nell’abbraccio struggente a Vittoria, la compagna con cui ha condiviso gran parte della sua vita, ai figli, Armando, Paola, al nipotino. Ai fratelli, ai cari di Alfredo. La chiesa di Santa Maria del Soccorso così grande, eppure così piccola. Ma le norme sul distanziamento sociale nell’epoca del Covid19, imposte anche nelle funzioni religiose, non attenuano l’intensità di un abbraccio ideale che una comunità intera tributa alla memoria di un militante e dirigente comunista, di un attivista politico e sindacale che ha rappresentato l’essenza più autentica della militanza e dell’impegno per un ideale che è sopravvissuto alla fine degli ideologismi, dei partiti e degli uomini stessi.
«Non c’è più, ma vive in ognuno di noi», le parole dei compagni che osservano commossi il feretro con le spoglie mortali di Alfredo Federici varcare la navata della chiesa. Non è retorica della morte: è il messaggio vero, forte e sentito che si pronuncia tra le lacrime che scendono copiose nell’accompagnare quell’uomo che lascia un vuoto profondo e incolmabile, nella sinistra, nella città, tra i suoi colleghi.
Ci sono le bandiere dell’Orsa, il più importante sindacato degli autoferrotranvieri di cui Federici era il segretario regionale, a sventolare in piazza Santa Maria. C’è il segretario della Cgil Raffaele Mammoli, ci sono i vertici del Pd provinciale e cittadino, gli amici che in veste di assessori hanno condiviso con Alfredo Federici l’esperienza della giunta guidata da Franco Sammarco. Ci sono soprattutto loro, i compagni, Matteo, Franco, Maurizio, Amerigo… tanti, tutti… ci sono i testimoni di una generazione che in pochi mesi ha perso tre figli, tre militanti, che in un contesto politico corrotto e disadattato, sono sempre rimasti fedeli ad un’identità di sinistra protesa alla difesa degli umili e alla lotta contro ogni forma di ingiustizia: Alfredo e, prima di lui, Aurelio Raniti e Nicola Arcella.
Celebra don Mario Stigliano, ma è il “prete compagno”, l’arciprete emerito del Duomo di San Leoluca, monsignor Peppino Fiorillo, a tracciare il ricordo commovente di Alfredo Federici: «Non era un praticante – dice don Peppino – ma era un credente, perché credeva nell’uomo. E chi crede nell’uomo, chi si batte per i suoi diritti, contro ogni ingiustizia, nella vita e sul lavoro, come ha fatto Alfredo con il suo impegno politico e sindacale, crede in Gesù Cristo». Un comunista, Alfredo, tutt’altro che praticante molto più cristiano di chissà quanti milioni di praticanti.
Stroncato da un tumore al polmone, scoperto quand’era troppo tardi, «il compagno Alfredo», in un’epoca in cui – continua il sacerdote – «ci preoccupiamo del coronavirus, ma fingiamo di ignorare che il male continua a mietere vittime e a fare sin troppo bene il suo lavoro». I tumori, sì, le altre malattie, un ambiente violentato, un mondo nel quale «i tre quarti della popolazione vivono sotto la soglia di povertà», dove «milioni di bambini muoiono di fame, o sono vittime di sfruttamento, nelle guerre, sessualmente, del traffico di organi».
Era questo ciò contro cui s’impegnava Alfredo Federici e, con lui, i suoi compagni, nella professione di un ideale che trovava compimento nel suo impegno politico e sindacale quotidiano. Perché in fondo «l’ingiustizia che si consuma contro un lavoratore ha la stessa origine del male che affligge un mondo di guerre, morti, povertà, sfruttamento», parole di Alfredo.
L’ultimo saluto è sotto il sole cocente di una città che si sveglia incredula: «Un uomo così imponente – dice don Peppino – che nell’aspetto fisico ti dava un senso di forza, sicurezza e protezione, e che nell’impegno quotidiano ritenevi fosse incrollabile, non pensi mai ti possa lasciare in così pochi giorni. Eppure è accaduto. Io stesso ero incredulo e lo sono ancora».
Cinquantasette anni: morire così presto, dopo una vita vissuta pienamente, ma con tante cose ancora da fare, tante battaglie ancora da condurre e rivoluzioni da realizzare. Tanto dolore, tanta costernazione. Ma anche tanta magnifica, struggente, bellezza nel ricordo di un grande compagno.