REPORTAGE | Da Vibo Marina a Tropea, in viaggio sulla strada della vergogna
La Provinciale del mare, in teoria una delle arterie paesaggisticamente più belle, ormai ridotta ad un “cimitero della civiltà”
Esco dall’ufficio, saranno le sette di sera. A Vibo Marina, pioggia e vento stanno cancellando ogni fisionomia urbana, già di per sé offesa da cinquant’anni e passa di urbanizzazione selvaggia e piani industriali falliti. I supermercati già chiusi, le luci spente, il fango per le strade. Devo percorrere 30 chilometri di provinciale, ma la ex SS 522 di provinciale non ha più niente, collassata com’è alla stregua dell’ente dal quale prende “la nomea”. E il tratto da Vibo Marina a Briatico, nel buio più totale, con i sacchi della spazzatura ammucchiati a decine e decine ai lati della carreggiata, non ricorda niente di già vissuto. È davvero, davvero uno dei posti più degradati e cupi che abbia mai visto negli ultimi 20 anni.
Una delle due vie d’accesso a Vibo Marina è chiusa da una settimana: la deviazione mi costringe all’esperienza mistica della variante interna verso Triparni. La faccio quasi ogni giorno: è una via crucis di degrado dove da gennaio 2019, mese del mio trasferimento in Calabria, permangono le stesse cariatidi di immondizia. Carcasse informi ammassate una sull’altra, dalle quali fuoriesce materiale indefinibile, mucchi orrendi che sovrastano carreggiata e pochi tratti di guard rail deformato dal tempo e dagli urti, messi anni luce fa chissà perché, chissà come mai e chissà da chi. Se penso che sono a poche centinaia di metri da un castello duecentesco in riva al mare su area archeologica e da una tonnara antichissima, trasformati nella brutta copia in scala ridotta della zona industriale di Chernobyl a vent’anni dall’evacuazione, mi prende la malinconia.
Con il vento e la pioggia, l’immondizia ti entra nelle ossa. Oggi fa paura. Paura davvero. Le raffiche di vento spostano da un lato all’altro della strada sacchi interi e rifiuti fuoriusciti dalle buste strappate, mangiate dagli animali in cerca di cibo. Sotto le ruote, si aprono all’improvviso voragini ammazza copertoni. La mancanza di lampioni per chilometri non aiuta. Tra fulmini e abbaglianti che incroci, intravedi cani abbandonati che attraversano la strada terrorizzati, malati, disperati. Non sono un’animalista. Ma fanno pena anche a me. In certi tratti, al buio, la totale assenza di un manufatto umano che richiami alla civiltà ti entra nelle ossa. Ha qualcosa di talmente sinistro da far tremare le vene dei polsi. Sono le sette di sera, e siamo in Italia. Ma sembrano le tre di notte, in un luogo completamente ostile e sconosciuto. Un videogame, ma parecchio brutto.
Sento che l’immondizia nelle strade del Vibonese non è più degrado. È qualcosa di diverso. Trascende ogni disservizio, ogni vuoto, ogni cortocircuito amministrativo. È aldilà del bene e del male. I sacchi abbandonati, tutti insieme, sembrano vivere di vita propria. Proliferare. Riprodursi. Consumare suolo, energia vitale, linfa. Sembra l’orrendo parassita di una terra troppo bella per i suoi abitanti, infastiditi ed illividiti come il vecchio orco per l’ammirazione suscitata dalla moglie bellissima, sposata per procura. Benvenuti nel back stage della Costa degli Dei. Dove vecchi elettrodomestici, materassi, ingombranti, appaiono e scompaiono. Si alternano di settimana in settimana: cambiano, e rimangono sempre gli stesse. Sono delle Pizie immote: superfetazioni maligne che si sono impossessate del paesaggio, e non lo lasciano più. E di notte, il bianco delle lavatrici a pezzi sotto i fari sembra quello di una creatura aliena, viva.
Questo penso, mentre percorro i miei chilometri tra allagamenti, acqua, fango, vento. Soccorro un automobilista in panne, che mi guarda come fossi la madonna. Perdo un’altra mezz’ora, ma pazienza. Mi rimetto in strada, il buio pesto interrotto solo da qualche cartellone pubblicitario. Vado a passo d’uomo, tra acqua, fiumi di fango, immondizia e sterpi. Servirebbe un’Alfa Matta, ma io ho un’utilitaria provatissima, che alla fine, mi sembrerà di aver trascinato per tutto il tragitto. Viaggi così sono viaggi mistici. Non solo fisici, ma della speranza: dove la speranza però è morta da un pezzo.
Qui sembra soffocare tutto. Anche le canne, anche i rovi, anche la foresta di sterpaglie che inondano le carreggiate, sotto il diluvio, hanno un aspetto grottesco. Cosa pensano, ti chiedi, gli abitanti delle case a pochi metri da lì, che ogni giorno passano davanti a questa sconfitta, a questa colpa? Come si fa ad assuefarsi? Quand’è che il degrado vince su di te? Quand’è che non lo vedi più? O meglio: lo hai mai visto? Oppure molti di quelli che vivono qui sono preda di una sorta di cupio dissolvi, e distruggono tutto perché sono dei complessati che non sopportano la grazia e la bellezza? Sono sempre più convinta che troppi abitanti di questa parte di mondo non sono solo indifferenti all’ambiente: sono ostili. La mentalità è quella della vittima della storia, che lasciata libera all’improvviso si ribella su chi può e come può. E quindi sulla Natura: colpevole di essere bella, essere indifesa, essere stata per troppo tempo dello stesso padrone del servo. Ancora oggi, in questa parte di mondo che di arcaico ha solo la ferocia del livore, la roba del padrone è bravo chi la brucia. Ai servi nati servi, ordine e bellezza suonano come un insulto.