Intervista esclusiva all’infermiere di Natuzza: «Quella volta che mi mandò a chiamare da un angelo…»
Venerdì 23 agosto la chiesa costruita per volere della mistica di Paravati sarà elevata a Santuario. In vista di questo importante evento Il Vibonese ha sentito Tonino Cichello, che dal 2000 al 2008 ha assistito la Serva di Dio per la quale è in corso il processo di beatificazione
Il prossimo 23 agosto la chiesa della Villa della Gioia di Paravati sarà elevata a santuario mariano. A farlo sarà il vescovo della diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, monsignor Attilio Nostro. L’edificio sacro e le altre realtà socio-assistenziali presenti nella grande spianata della Fondazione “Cuore Immacolato di Maria Rifugio delle Anime” sono sorte su input di Natuzza Evolo, la mistica con le stigmate morta il primo novembre del 2009, di cui la Chiesa ha aperto il processo di beatificazione. A poche ore dallo svolgimento dell’apposita cerimonia abbiamo incontrato Tonino Cichello, dal 2000 al 2008 infermiere professionale di fiducia della Serva di Dio. A “sceglierlo”, mentre si trovava per motivi di lavoro a Roma, la stessa Mamma Natuzza, così come attestato prima di morire dal figlio Antonio, il “discolo” di casa Nicolace, e dai testimoni oculari Rosanna Frontera Failla, titolare della clinica Villa Sant’Anna di Catanzaro, e dal dottore Michele Carnovale.
Chi era Natuzza?
«Mamma Natuzza era una monaca, una francescana. La sua legge era l’umiltà, la bontà, la povertà, l’ubbidienza fatta persona. Amava i giovani, i sacerdoti, e chiedeva a tutti di pregare per loro. Questa era Natuzza, una persona che viveva in spirito di donazione e di eroismo per gli altri e per la Chiesa. Ho avuto la grande fortuna di guardarla negli occhi da vicino. Ogni volta che stavo con lei percepivo un grande sensazione di pace».
Il prossimo 23 agosto la “sua” chiesa sarà elevata a santuario mariano…
«A lei luccicavano gli occhi quando c’erano manifestazioni per portare avanti il progetto della Villa della Gioia e della grande chiesa richiestele dalla Madonna. Mi ricordo quando fu organizzata, al riguardo, la Notte degli Angeli. Il giorno dopo mi disse: “Hai visto come è stato bello e quanta gente è venuta, era tutto pieno”. Io vi avevo assistito dagli ultimi posti, insieme ad altri amici, e mi permisi di dire che alcune sedie erano rimaste vuote. “No – ribatté con un sorriso – tu non potevi accorgertene, ma ti posso assicurare che era tutto pieno”».
In che modo l’assisteva dal punto di vista medico?
«Quando penso al privilegio che ho avuto mi sento indegno e mi chiedo perché proprio a me. Un giorno lo chiesi anche a lei e mi rispose: “Mica sono stata io, il Signore ha voluto”. All’inizio curavo principalmente il processo di cateterizzazione del marito Pasquale, poi ho cominciato ad effettuarle i prelievi del sangue, due tre volte alla settimana, e delle flebo per 30 giorni, una volta l’anno. L’ho fatto fino a quando le sue condizioni di salute non si sono aggravate ed è stata ricoverata in ospedale».
Che paziente era Mamma Natuzza?
«Obbediente. Aveva malattie incompatibili con la vita e tante cose le faceva e permetteva che le svolgessimo in spirito di obbedienza e per farci contenti. In fondo in fondo il suo desiderio era di ritrovarsi con Gesù e la Madonna. Delle sue virtù eroiche ho dato testimonianza anche alla diocesi per il processo di canonizzazione».
Ci racconti in conclusione un aneddoto…
«Un giorno mi sono svegliato di soprassalto di primo mattino, con il pensiero fisso che dovevo recarmi alla Fondazione a trovare Natuzza. Dopo un po’ di titubanza mi sono alzato e sono sceso in automobile a Paravati. Appena premuto il campanello della Casa per anziani in cui viveva la porta si è aperta, sono salito al piano superiore senza incontrare nessuno e Natuzza era lì ad attendermi, con un occhio fortemente arrossato. Al suo fianco il laccio e l’ago già pronti per effettuare il prelievo. Quando le ho raccontato l’episodio mi ha spiegato che le era sembrato male telefonarmi e che aveva, per questo, inviato l’angelo».
E poi…
«Effettuato il prelievo e dopo aver versato il sangue necessario nella provetta ho messo la siringa con il resto del liquido in tasca. Giunto a casa mi sono ricordato del contenuto e ho provveduto a svuotare il sangue residuo su un fazzoletto ripiegato. Qualche giorno dopo nell’aprirlo mi sono accorto, con mio grande stupore, che erano rimaste otto macchie, con su impresse delle immagini. Un fazzoletto che ancora custodisco. Ogni volta che il figlio e mio caro amico Antonio lo vedeva si metteva a piangere…»