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Vibo Marina 1943 – 2023, ottanta anni fa lo sbarco alleato: il ricordo degli ultimi testimoni

Nell’ottantesimo anniversario dell’evento bellico, che fu la più grande battaglia combattuta in Calabria tra forze dell’Asse e Alleati anglo-americani, il racconto dell’avvenimento attraverso le voci di chi in quei giorni c’era. Sullo sfondo anche la breve storia d’amore tra Sabellina, una ragazza del posto, e Ibrahim, un soldato anglo-indiano

Vibo Marina 1943 – 2023, ottanta anni fa lo sbarco alleato: il ricordo degli ultimi testimoni

Fin dall’inizio del 1943 furono intensificati i bombardamenti su Vibo Marina, snodo ferroviario e marittimo importante per i rifornimenti di truppe e materiali verso la Sicilia, dove era previsto uno sbarco delle forze anglo-americane  che avvenne tra il 9 e il 10 luglio. Poi venne il 12 aprile, quando il piccolo borgo marinaro fu scosso da un boato, mentre dal porto si levava una colonna di fumo altissima. Passò qualche minuto e giunse una tempesta di bombe una, dieci, venti, sembrava non finissero mai. «Avevo dodici anni- ricorda la signora Melina – ma il boato delle esplosioni mi dà ancora i brividi al pensiero e un fragore spaventoso di vetri rotti. A un tratto le bombe finirono, sentimmo gli aerei che si allontanavano. Eravamo vivi, dentro una coltre di fumo e polvere, non si vedeva niente, era tutto bianco, non ci vedevamo neanche tra noi. Forse per questo capisco chi scappa dalla guerra, chi è profugo, chi cerca salvezza. Perché quella sensazione l’ho vissuta e so che cosa significa». Per scampare ai continui bombardamenti, la maggior parte dei pochi abitanti era sfollata nelle campagne circostanti o nei paesi dell’entroterra. I pochi che erano rimasti, la mattina dell’8 settembre videro nel mare tante imbarcazioni, tra esse una miriade di natanti di strane forme e di varie dimensioni che facevano la spola con la riva . Lo sbarco a Vibo Marina, denominato “operazione Ferry (traghetto)” era stato deciso il 6 settembre dal generale Dempsey (lo stesso che avrebbe guidato le truppe inglesi nello sbarco in Normandia del giugno ’44) da effettuarsi mediante una flotta d’assalto che sarebbe partita da Messina ed aveva individuato il luogo adatto per mettere a terra le truppe: “near Pizzo, at Porto Santa Venere”. A testimoniare che si trattò di una battaglia vera e non di una semplice scaramuccia, bastano i dati forniti dalle fonti britanniche: i caduti tra le forze alleate ammontarono a circa 200, tre mezzi da sbarco e una nave vennero affondate. Non furono fornite notizie in merito alle perdite in campo tedesco, ma dall’esito dello scontro si può desumere che esse furono ancora più pesanti di quelle alleate. Nelle sue memorie, il colonnello inglese CJC Molony scrisse: “ Non vi è dubbio che operazione di Porto Santa Venere ebbe un importante peso nell’accelerare la ritirata tedesca dal sud Italia”.

«Riuscimmo a trovare un alloggio in campagna con alberi che ci sfamarono – ricorda Francesco- finché un giorno giunse nel paese la notizia che a Vibo Marina erano sbarcati “i mericani”. La mia famiglia aveva paura, non sapevamo che cosa aspettarci, erano quelli che ci avevano bombardato, i nemici contro cui eravamo in guerra. “Macché, disse un conoscente, distribuiscono sigarette e cioccolato, sorridono, stringono le mani, fanno segno di pace”. In realtà, a sbarcare non furono gli americani ma i soldati  inglesi dell’VIII Armata del generale Montgomery, precisamente la 231° Brigata Indipendent Infrantry denominata “Brigade Malta”, che era forse la più cosmopolita delle formazioni militari inglesi e che era costituita da reparti inglesi, scozzesi, polacchi, australiani, neozelandesi e anche indiani, che si distinguevano per i loro caratteristici turbanti e i lunghi coltelli ricurvi. I soldati alleati sfilarono lungo la strada principale, accolti dalla popolazione locale, dopo anni di fame, pidocchi e  bombardamenti,  come liberatori e non come occupanti, tra lo stupore dei bambini. Uno di essi indicò ad un soldato un grosso escremento di mucca in mezzo alla strada, accompagnando il gesto con la parola “mangerìa”. «Dubito che il soldato avesse capito la parola- racconta Giovanni- ma sicuramente intuì il significato e si mise a rincorrere il monello senza tuttavia riuscire a raggiungerlo». Giovanni ricorda ancora un soldato di colore che offrì ai bambini come lui una “ciungam”, una caramella morbida e dal sapore buonissimo. «Eravamo sfollati nelle campagne vicino al paesino di San Pietro, dove i tedeschi avevano allestito una postazione contraerea. Ricordo che i soldati mangiavano uno strano pane, nero e di forma quadrata,  che ci volevano offrire ogni volta che passavamo da lì. Dopo la battaglia scendemmo verso Vibo Marina. Lungo la strada si vedevano automezzi militari bruciati. All’interno di uno di essi, la carcassa di un’ambulanza dell’esercito tedesco, c’era il corpo di una ragazza bionda, con il camice da infermiera. Era insanguinata, ma la morte non aveva scalfito il suo bel viso. Ricordo poi che sulla via principale del paese arrivarono dei soldati su delle camionette aperte. In testa non avevano l’elmetto ma un turbante. Io ero con una mia amica che chiamavamo Sabellina,  figlia di un palombaro che aveva lavorato nella costruzione del porto, anche lei quindicenne come me. Un soldato guidava e un altro lanciava sigarette e caramelle. Le raccolsi e i militari mi salutarono».  

Poi la signora Antonia aggiunge una piccola storia al suo racconto: «Il giorno dopo Sabellina mi confidò che aveva conosciuto un soldato indiano, di quelli con il turbante in testa. Si chiamava Ibrahim ed era molto giovane, quasi un ragazzo. Parlava discretamente l’italiano. Non aveva molta simpatia per gli inglesi, nonostante combattesse nel loro esercito, in quanto l’India era ancora una colonia britannica e gli indiani venivano impiegati nelle operazioni più rischiose. Infatti il suo compito era quello di  trovare e far saltare le mine. Le disse che il turbante lo usavano per raccogliere i loro lunghi capelli, che non tagliavano mai. La chiamava “segnorina Sabellina”. Poi la mia amica mi confidò che la sera prima della partenza si erano dati un bacio e Ibrahim le aveva promesso che, a guerra finita, sarebbe ritornato per incontrarla. Le disse anche che le avrebbe scritto, ma l’Italia era ridotta in macerie e le vie di comunicazione erano tutte interrotte. Passarono i mesi, poi gli anni,  Sabellina non ebbe più notizie di Ibrahim e le restò per sempre il dubbio che forse era morto durante qualche missione». Anche la guerra, a distanza di anni, assume contorni diversi, accettabili, a volte commoventi. La più grande tragedia del Novecento fu costituita anche da piccole vicende umane, storie raccontate dagli ultimi testimoni di quei fatti e da custodire per evitare che su di esse, con il passare degli anni, scenda per sempre la coltre dell’oblio.

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