Amore e morte nei reparti Covid di Vibo, la trincea ai margini della sanità – Video
Medici ed infermieri, anche qui, eroi. Il loro sacrificio, in uno degli ospedali più vecchi e decadenti d’Italia, non fa rumore. I diciotto posti letto non bastano: ce ne vorrebbe il doppio, ma c’è carenza di personale. E si lavora alla Terapia intensiva Covid
I gesti gentili e sicuri dell’infermiera, che sistema il respiratore ad alti flussi sul volto del paziente, sono come carezze amorevoli. Pepè, però, si aggraverà repentinamente e spirerà. Sessantasette anni, una vita a Bergamo, poi la pensione ed il ritorno in Calabria, nella sua Nicotera. Il coronavirus, la morte. Il cuore di Pepè cessa di battere nel reparto in cui lavora come infermiere il sindaco del suo paese, Pino Marasco, che sui social esprimerà il suo dolore. In quel letto, adesso, in Malattie infettive, c’è già un altro paziente. Otto posti, qui. Altri dieci, anche questi tutti occupati, in Ortopedia, riconvertita a tempi record in reparto Covid. Lo Jazzolino è saturo. «Visto il numero delle persone infette sul territorio – spiega il primario Michele Brogna – servirebbero almeno altri quindici posti letto, però…».
Però ci sono ostacoli quasi insormontabili da superare. Il più importante: c’è poco personale, peraltro costretto a fare la spola, tra i due avamposti Covid, ubicati in due padiglioni diversi del vecchio Jazzolino. L’Azienda sanitaria provinciale punta all’attivazione di una Terapia intensiva Covid entro tre settimane, da sei a otto posti letto, ma servono dodici anestesisti rianimatori. Utopia, se si considera che nella buona vecchia Rianimazione, si è già sotto organico con appena undici medici. [Continua]
Il commissario, i numeri
Un grattacapo non da poco per il commissario Giuseppe Giuliano, che ha un altro obiettivo: adeguare, in poche settimane, l’intero padiglione di Malattie infettive. «Per onestà devo dire – spiega il primario Brogna – che il commissario non ha badato a spese. E mai, ad una mia richiesta, ha risposto no. Qualunque cosa abbia chiesto, che fosse un respiratore piuttosto che un monitor multiparametrico, ci ha sempre dato riscontro. Ha fatto di tutto per consentirci di lavorare al meglio. Bisogna dire quel che non fa – ci esorta -. Ma bisogna spiegare anche ciò che funziona».
E così proviamo a raccontare qual è la risposta dello Jazzolino, in un anfratto quasi dimenticato della Calabria, alla domanda di salute di una provincia che grazie all’elaborazione dei tamponi a Bari scopre che il contagio anche a queste latitudini ha assunto dimensioni inquietanti: altri 180 positivi. I posti letto a Vibo sono pochi, l’ospedale è strutturalmente decadente ed inadeguato, ma l’assistenza a quanti sono curati qui non ha nulla da invidiare a quella di altri ospedali, della Calabria e d’Italia.
C’è chi dice sì
Dopo settimane ad attendere rinforzi, settimane di tentennamenti, rifiuti, certificati di malattia, nei Reparti Covid di Vibo Valentia sono arrivati pure i rinforzi. Sono arrivati soprattutto i medici. Il più giovane è Andrea Iannello, proviene da Medicina generale ed ha soli 32 anni: «Perché sono qui? Perché c’è gente che ha bisogno di essere curata», replica con disarmante semplicità. Anche Alessandro Trimboli, che viene da Nefrologia, è molto giovane: «Non so se qualcuno si è tirato indietro, se ciò è accaduto ne risponderà alla sua coscienza. La mia mi ha imposto di esserci, perché è questo il momento in cui c’è bisogno di noi e tutti dobbiamo dare una mano».
Lavoreranno al fianco dei veterani dell’infettivologia. Uno di questi è Alfredo Vallone. Oggi eroi, domani? «È il nostro mestiere, si sa come funziona. Domani magari ci si dimenticherà di quello che stiamo facendo. Torneranno le aggressioni ai medici, non ci sarà rispetto né gratitudine. Ma non importa – chiosa – Noi quello che facciamo, lo facciamo perché è il nostro dovere, non perché vogliamo che qualcuno ci sia grato». Parla con orgoglio misto ad amarezza, il dottor Vallone. Sguardo stanco. È dura. Perché il Covid qui infetta, fiacca, stende, porta al ricovero e uccide come in ogni altro posto del mondo. E come in ogni altro luogo del mondo, i reparti Covid di questa metafora della sanità calabrese sono delle trincee in cui si salvano vite.
La fake news
Il nostro viaggio inizia da una sorta di ballatoio. Sui social, qualche buontempone, aveva pubblicato un post confezionando una fake news: «Vibo reparto Covid… I parenti vanno a trovare gli ammalati. Fra le tante cose che non funzionano in questa città, questa è la più grave… Poi ci domandiamo da dove si propaga il virus… Da li mortacci vostri!». A corredo, una foto: una persona cerchiata in verde mentre osserva attraverso le finestre le stanze del reparto.
«Era uno dei nostri infermieri – spiega il primario -. Utilizziamo questo ballatoio, soprattutto ad inizio e fine turno, per osservare i pazienti, evitando di bardarci. È per questo che teniamo i monitor tutti rivolti verso le finestre». Ecco svelato l’arcano. Nelle more, però, la socialmediacrazia li ha massacrati. In reparto però si lavora “h24”, doppi turni. Nel reparto Covid di Malattie infettive ci sono i pazienti messi peggio. Vengono trattati con il respiratore ad alti flussi e, quando si aggravano, con quello strano casco che pompa ossigeno in ancora maggiori quantità. Se le cose si mettono male, il paziente viene trasferito in Terapia intensiva Covid a Catanzaro, se dà segnali di miglioramento viene portato nell’altro reparto Covid, nell’ex Ortopedia. La durata media di un ricovero per SarsCov2 oscilla tra le tre e le quattro settimane.
Protezione e rischio
Si rispettano i protocolli: nessuno dell’équipe, sin dall’inizio della pandemia, s’è mai contagiato. «E per quanto ci riguarda e questo penso valga per smentire altre fake news – spiega il primario Brogna – noi non abbiamo mai, e ripeto mai, avuto carenza di dispositivi di protezione individuale. Questo, il rispetto dei percorsi e dei protocolli, ci hanno consentito di proteggerci e di limitare il contagio all’esterno».
I pazienti, però, muoiono anche. Pepè e la sua improvvisa scomparsa forse bastano a raccontare la letalità del virus. «Ma siamo riusciti a curare e salvare decine di pazienti e anche se questo non allevia la tristezza, ci incoraggia a non mollare a dare sempre il meglio di noi stessi», chiosa Pino Marasco, il sindaco-infermiere. Ed eccoli quindi, i medici e gli infermieri eroi. Anche qui, nel profondo sud, nella Calabria zona rossa, dolente e decadente. Qui dove i guasti del passato si prova a ripararli meglio che si può nel presente. Sarà tutto precario, sì. La struttura è inadeguata e fatiscente. Ma l’impegno, la dedizione, lo spirito di servizio anche qui sono costanti. Qui dove il Covid non arresta il suo fatale contagio e fa sempre più paura.