Farmaco sbagliato a Vibo per paziente con trapianto, la Cassazione annulla il verdetto d’appello
Accolto per gli effetti civili il ricorso della parte lesa a cui per un clamoroso errore è stato somministrato dalla farmacia dell’Asp un antitumorale utilizzato nei cicli di chemioterapia. Due gli imputati
Dovrà essere il giudice civile in sede di appello a valutare i danni provocati al pensionato Girolamo Lo Scalzo di Tropea, vittima di un incredibile caso di presunta malasanità. La quarta sezione penale della Cassazione, accogliendo il suo ricorso ai soli effetti civili (per il penale la Procura generale di Catanzaro non aveva presentato ricorso), ha infatti annullato la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro emessa il 23 marzo 2016 nei confronti dei farmacisti dell’Asp di Vibo, Giuseppe Borello, 60 anni, di San Costantino Calabro, e Domenico Antonio Mazzeo, 66 anni, di San Gregorio d’Ippona, accusati di aver somministrato al pensionato Girolamo Lo Scalzo un farmaco diverso da quello prescrittogli dai sanitari dell’ospedale “Niguarda” di Milano dove, nel 1996, aveva subito il trapianto del fegato. Rientrato da Milano, Lo Scalzo il 27 maggio 2008 aveva presentato la prescrizione di un nuovo farmaco rispetto a quello abituale. Nella farmacia dell’Asp, che ha sede nell’ospedale di Vibo, gli avrebbero però consegnato delle compresse chemioterapiche usate contro i tumori, ingerite dal pensionato che ha avvertito a distanza di giorni forti dolori, febbre e perdita dei capelli. Il 29 marzo 2013 i due farmacisti erano stati condannati dal Tribunale di Vibo a tre mesi ciascuno con pena sospesa per i reati di lesioni personali colpose e somministrazione di medicinali in modo pericoloso. In appello erano stati invece assolti. La Cassazione, accogliendo ora il ricorso dell’avvocato Giovanni Vecchio, ha stabilito (contrariamente a quanto deciso dalla Corte d’Appello di Catanzaro) che i due imputati, che lavoravano alle dipendenze dell’Asp di Vibo Valentia nella struttura farmaceutica, l’uno quale dirigente farmacista e l’altro quale coadiutore amministrativo, avevano la qualifica di soggetti che esercitano il commercio ed è pertanto integrato il reato di somministrazione di medicinali in modo pericoloso perché le farmacie ospedaliere che detengono farmaci direttamente sono da considerare dei veri e propri punti vendita in quanto, al pari delle altre farmacie, svolgono attività continuativa ed organizzata di commercio di sostanze medicinali. In secondo luogo, i criteri seguiti dalla Corte d’Appello di Catanzaro per ribaltare ed assolvere i due imputati, ad avviso della Cassazione sono errati. Girolamo Lo Scalzo aveva infatti subìto nel 1996 un trapianto epatico e aveva raggiunto una ridotta funzionalità renale, pari al 25%, come effetto collaterale della terapia immuno soppressiva a base di ciclosporina; in ragione di ciò, i medici curanti dell’ospedale Niguarda di Milano avevano deciso di ridurre le dosi di ciclosporina e di introdurre un nuovo farmaco immuno soppressore, il Cellcept 500; il paziente si era quindi recato il 27 maggio 2008 nel servizio farmaceutico dell’Asp di Vibo per acquistare tale nuovo farmaco. Qui Domenicantonio Mazzeo gli aveva consegnato, per errore, un farmaco diverso, ossia lo Xeloda 500, che è un antitumorale utilizzato nei cicli di chemioterapia. Lo Scalzo aveva iniziato a manifestare così gravi e debilitanti sintomatologie sin dai primi giorni di assunzione del farmaco, erroneamente valutate dal medico curante in termini di gastroenterite acuta. Il Tribunale aveva ritenuto accertato, sulla base della consulenza tecnica del pubblico ministero, che l’assunzione di tale farmaco per un periodo di circa quaranta giorni (ossia fino a quando, nell’acquistare una seconda confezione, il ricorrente si era reso conto dell’errore) aveva provocato un repentino peggioramento della funzionalità renale, ridotta dal 25% allo 0%, allorchè aveva dovuto iniziare la dialisi, nell’arco di un anno. Per la Cassazione è corretto il nesso causale di tale evento con il reato di lesioni personali colpose poiché la scheda tecnica dello Xeloda riporta la controindicazione assoluta nei pazienti con insufficienza renale grave. La sentenza d’appello, ad avviso della Suprema Corte, ha espresso invece giudizi di natura scientifica che non risultano fondati sull’apporto di un esperto “nonostante il sapere scientifico non sia surrogabile con la scienza privata del giudice o con ragionamenti logici”. Da qui l’annullamento della sentenza d’appello con rinvio al giudice civile.