La vera storia del Tartufo di Pizzo e la cantonata del New York Times
Secondo il quotidiano statunitense il prelibato gelato fu realizzato in onore di un discendente del primo re d’Italia. Ma non andò così...
di Rocco Greco
Il “Tartufo di Pizzo” è oggi un prodotto tipico della pasticceria calabrese, ma la ricetta del delizioso dolce al cucchiaio tipico della cittadina tirrenica vanta una storia di appena sessant’anni. Cercheremo, in questa sede, di mettere un po’ d’ordine su quanto si è detto e scritto in merito, con alcune doverose precisazioni. Ad esempio quella che riguarda la versione del prestigioso New York Times, che alla genesi del dolce napitino ha dedicato un articolo con tanto di storia a fumetti. Il tartufo, secondo il quotidiano statunitense, sarebbe stato servito per la prima volta in occasione della visita di un discendente di Vittorio Emanuele II, giunto a Pizzo per un matrimonio.
Un aneddoto che non trova conferme e che sembra echeggiare l’origine della pizza Margherita, che secondo una credenza diffusa fu creata da un cuoco napoletano in onore della regina d’Italia, Margherita di Savoia, in visita a Napoli.
Per quanto riguarda il Tartufo, la versione ufficiale, suffragata dalle dirette testimonianze dei discendenti del suo ideatore, narra che nel 1950 Dante Veronelli, un imprenditore originario di Milano, presa in moglie una ragazza di Vibo Valentia, venne a vivere in Calabria. Questi rilevò il “Gran Bar Excelsior”, che in seguito cambierà nome in “Gelateria Dante”, ubicata nella centralissima Piazza della Repubblica a pochi metri dalla balconata di Pizzo. Dante Veronelli, oltre al Gran Bar Excelsior, diventò proprietario anche del cinema Elena, ma questa è un’altra storia.
Il motivo che lo ha spinto ad avvalersi della collaborazione di Giuseppe De Maria (foto), messinese, per tutti don Pippo, è che questi era stato suo compagno d’armi. Fu questa forte amicizia che portò a Pizzo l’ex commilitone, eccellente mastro pasticcere e gelatiere, formatosi nella prestigiosa pasticceria messinese “Da Irrera”.
Nel 1952 don Pippo De Maria rilevò a sua volta il Bar Dante, rimanendo, così, l’unico gestore dell’attività. E fu nel 1954 che il pasticcere messinese realizzò, per un caso fortuito, il prototipo di quello che sarebbe diventato uno dei gioielli della tradizione dolciaria calabrese. La storia narra che, impegnato nei preparativi di un matrimonio all’interno dei locali del Castello Murat, don Pippo si ritrovò senza forme dove confezionare il gelato per i numerosi invitati. Per sopperire a quella mancanza, don Pippo fece ricorso all’inventiva. Sovrappose dell’incavo della mano due porzioni di gelato, una alla nocciola e l’altra al cacao ed inserì al centro del cioccolato fondente fuso. Avvolse il tutto in un foglio di carta alimentare ricavato dai sacchi dello zucchero e mise a raffreddare. Ne uscì fuori un blocchetto solido, servito con una spolverata di polvere di cacao. Il dolce improvvisato riscosse un enorme successo tra i commensali. La nuova creazione, alla quale venne dato il nome di “tartufo”, raggiunse presto la notorietà.
Nel corso degli anni in molti, anche blasonate case dolciarie, hanno cercato di imitare il “tartufo di Pizzo”, che rimane però una specialità della cittadina calabro-tirrenica, non più conosciuta nel mondo solo per la barbara esecuzione del cognato di Napoleone e Re di Napoli, Gioacchino Murat.