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Sessantacinque anni fa la tragedia della “Littorina”

Il 17 novembre 1951 avvenne il disastro civile più grave registratosi nella storia del territorio vibonese. La sciagura provocò 11 morti e 40 feriti

Sessantacinque anni fa la tragedia della “Littorina”

Aveva molto piovuto fra l’ottobre e il novembre di quell’anno 1951 e l’intera Calabria era stata interessata da frane e inondazioni senza precedenti a memoria d’uomo. Nella regione si contarono 70 vittime, 4.500 i senzatetto, 26 ponti crollarono, incalcolabili i danni per l’economia agricola. I mezzi d’informazione dell’epoca diedero poco risalto alla grave alluvione avvenuta in Calabria, ma grande risonanza, anche internazionale, ebbe la quasi contemporanea alluvione del Polesine per la quale fu aperta una sottoscrizione di fondi che riuscì a raccogliere in poco tempo 26 miliardi di lire del 1951.

La mattina del 17 novembre l’automotrice “M1-36” percorreva, con 70 persone a bordo, il tracciato ferroviario conosciuto come “Pizzo-Porto Santa Venere-Mileto”, importante opera di alta ingegneria inaugurata il 2 luglio 1917 quando ancora Vibo era denominata Monteleone e Vibo Marina si chiamava Porto Santa Venere. Nelle previsioni progettuali originarie la linea avrebbe dovuto congiungere, con un percorso di circa 120 chilometri, Porto Santa Venere a Soverato, consentendo il collegamento Tirreno-Ionio su strada ferrata.

Per quasi mezzo secolo, dapprima per mezzo dei trenini a vapore e successivamente con le “littorine” diesel, la ferrovia aveva avuto un ruolo primario per lo sviluppo economico e culturale del territorio vibonese,rappresentando il collegamento principale tra il capoluogo e le marine. Nei mesi estivi , in particolare, il numero dei viaggiatori aumentava sensibilmente grazie alle “corse popolari”, che consentivano a comitive di bagnanti di raggiungere le bianche spiagge di S. Venere con un biglietto del costo di dodici soldi. La tratta ferroviaria con partenza da Porto Santa Venere prevedeva le fermate alle stazioni e ai caselli di Pizzo, Longobardi, Sant’Onofrio, Monteleone, Vena, Ionadi, Cessaniti, San Costantino Calabro e infine Mileto. Le “Emmine”, utilizzate sul percorso, avevano preso tale appellativo dalla sigla “M” di immatricolazione che le avevano assegnato le Ferrovie Calabro-Lucane e, dato che erano proprio piccole, ebbero tale grazioso diminutivo.

Quella mattina ,sull’Emmina M1-36, c’erano passeggeri di un po’ tutti i paesi: Mileto, Francica, San Costantino, Vibo. Molti di essi erano operai che si recavano a Vibo Marina per prendere servizio presso il Cementificio “Segni”. Tra di essi viaggiava anche un insegnante, di solito puntualissimo, ma quel giorno stranamente ritardatario. Il capotreno Giuseppe Pisano, essendo suo conoscente, l’aveva atteso qualche minuto oltre l’orario consentendogli in tal modo di non perdere la corsa. Ma nella vita ci sono dei percorsi che portano più ad un destino che ad una destinazione.

La “Emmina” correva alla velocità di 70 km. orari, tanto per quei tempi, quando il capotreno ed il macchinista Giuseppe Scicchitano videro improvvisamente cedere l’ultima arcata del ponte “Ciliberto”, tra Pizzo e Vibo Marina, in linea d’aria con la bianca rupe di tufo che si affaccia sul mare e che, per tale colorazione, viene denominata “Timpa Janca”. I conducenti dell’automotrice non ebbero neanche il tempo di pensare e tutto si svolse in pochi, interminabili, attimi: la littorina, con il suo carico di vite umane, precipitò nel vuoto da un’altezza di diciotto metri. Nove persone morirono sul colpo, altre due moriranno in seguito alle ferite riportate, altre 40 rimasero ferite in maniera più o meno grave.

Tra le vittime, per un tragico gioco del destino, anche l’insegnante che avrebbe voluto arrivare in ritardo all’appuntamento con la morte. Il capotreno Pisano rimase seriamente ferito, ma soprattutto sentì per tutta la vita una sorta di rimorso , naturalmente immotivato , per aver atteso quel passeggero stranamente ritardatario. Diceva che quel giorno una parte di lui era rimasta per sempre in quella automotrice.

Quella tragedia determinò la fine della linea ferrata. All’indomani del disastro, l’on. Casalinuovo formulerà un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro dei Trasporti per chiedere quali provvedimenti il governo aveva in mente di adottare per un definitivo assetto dei mezzi di trasporto nella zona, che, eliminando ogni pericolo, offrisse garanzie di sicurezza. La risposta del ministro fu quanto mai rassicurante: “Nei riguardi della sicurezza dell’esercizio, nessun particolare provvedimento risulta necessario adottare per la rete ferroviaria in esame in quanto esistono le prescritte garanzie. Per un potenziamento dell’esercizio della rete stessa, sono infine in corso, com’è noto, alcuni provvedimenti fra i quali l’acquisto di 24 nuove automotrici ed 8 rimorchiate”.

Ma ormai nuovi potentati economici si affacciavano all’orizzonte, i quali, in Italia, premevano per una riconversione privilegiando il trasporto su gomma, favorito dalla costruzione di grandi reti autostradali. Il ponte non venne più ricostruito e la società “Mediterranea”, nuova concessionaria della tratta, istituì un servizio di trasporto su gomma Vibo Marina-Mileto. Nel 1963 il governo , forte del parere favorevole inspiegabilmente espresso dai Comuni interessati, decise di chiudere e smantellare il tracciato ferroviario che, in base al progetto rimasto sulla carta, avrebbe dovuto congiungere Vibo Marina a Soverato, attraversando le Serre.

Quello di Timpa Janca può essere, in qualche modo, considerato un disastro annunciato, in quanto l’incuria, l’abbandono, la scarsa manutenzione, in un contesto idrogeologico fragile, che avrebbe richiesto importanti interventi di messa in sicurezza, furono tutti elementi che favorirono sicuramente le condizioni per il verificarsi della tragedia. Un campanello d’allarme era già suonato il 27 ottobre 1927, quando il treno diretto a Porto Santa Venere, gremito di viaggiatori, giunto nei pressi della stazione di Longobardi, per poco non era stato investito da un enorme macigno di circa cento quintali staccatosi dal costone e precipitato sulla linea. La tragedia , che in quel caso avrebbe potuto assumere le dimensioni di una strage, fu evitata soltanto grazie alla prontezza di riflessi del macchinista Giuseppe Crea ,che riuscì in extremis a fermare la locomotiva a pochi centimetri dal masso che ostruiva il binario. Era forse un segnale importante, che avrebbe dovuto suggerire l’adozione di decisi interventi strutturali e invece nessuno se ne sarebbe curato.

L’incidente di “Timpa Janca” costituì un pretesto valido per smantellare il percorso ferroviario ,caratterizzato da un meraviglioso tracciato panoramico che oggi, grazie ad un progetto finanziato dalla provincia di Vibo Valentia, è possibile percorrere a piedi con ingresso a fianco della stazione della “Madonnella”. Esso rappresenta uno dei luoghi naturalisticamente più suggestivi dell’intero territorio provinciale e, percorrendolo, qualcuno potrà anche sognare che un giorno quella vecchia linea ferroviaria venga in qualche modo recuperata ed utilizzata non solo per fini escursionistici. Viaggiando con l’immaginazione, si può anche fingere di vedere realizzata, dopo la messa in sicurezza della collina, una linea metropolitana di superficie che unisca il capoluogo ai centri della costa vibonese, regalando alla collettività un viaggio di pochi minuti in uno spicchio di paradiso.

 

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