12 settembre 1943. La rivolta di Joppolo: una storia di fame, ribellione e morte
Settantacinque anni di silenzio sono passati dall’uccisione di Antonio Capua, capro espiatorio di una delle tante rivolte contadine che si consumarono dopo la fine della guerra. Colpito alle spalle mentre cercava di scappare, portava i segni delle violenze subite dopo due giorni di detenzione. Ecco la sua storia
È morto male, Antonio Capua, procaccia postale, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalla galera. E le unghie strappate via, quelle la famiglia le aveva viste, quando gli avevano ridato il morto: ma lo avevano seppellito senza chiedere, sotto quella croce di legno d’ulivo senza nome, che i vecchi di Coccorino ancora ricordano la paura che faceva quando erano bambini, paura anche a passargli vicino, e scappavano via, che nell’aria era rimasta l’ombra di qualcosa di brutto, qualcosa che era morta male, qualcosa che non si doveva conoscere, che non si doveva dire, ma era nei discorsi sussurrati nelle case, dietro gli angoli dei vicoli, attaccata ai rami degli alberi intorno a quella croce di ulivo senza nome, che adesso non c’è neanche più, e chissà se Antonio sta là sotto, o qualcuno lo ha portato via.
La rivolta. È morto male Antonio Capua, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalle guardie, dopo la rivolta di due giorni prima, quando a Joppolo erano venuti giù prima il cielo con tutti i santi, schiantati a terra dalle bestemmie di 400 poveri cristi indemoniati dalla rabbia e dalla fame, e poi il Comune, con il fuoco; la casa del Segretario, con i sassi; la casa del vicesindaco, con le razzie; e mobili, e porte, e finestre, e un vigneto, che la notizia di un carico di grano inglese arrivato e non distribuito era stata come il rosso negli occhi del toro, che in Calabria si moriva di fame «non per modo di dire, ma nel vero e crudo senso della parola» (“Manca il grano?”, da La Voce del Popolo, 23 gennaio 1944). E avevano distrutto tutto, ma senza fare morti, che volevano solo farina, e pane, e terra, e libertà, ed il morto non serviva, che la politica non la sentivano nella testa ma nelle vene, perché c’era, il sentimento antifascista, eccome se c’era, ma era confuso con l’odio verso i baroni, e quella che doveva essere partigianeria sarebbe rimasta jaquerie: e i ribelli, ladri.
I capipopolo. È morto male, Antonio Capua, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalla galera e dalla vendetta, sotto i colpi di pistola dell’appuntato Bicciardello (Caterina Pagano, “Joppolo e il suo circondario”, ed. Ursino, 1999). Unico capro espiatorio dei 400 diavoli che alle 9 di mattina del 12 settembre correvano armati di forconi, pistole, picconi, accette e bombe a mano, capeggiati dal Capua, ma soprattutto dai sergenti paracadutisti in divisa Antonio Settis, Rocco Preiti e Domenico Capuscelli. E scriverà il tenente colonnello dei Carabinieri Enrico del Bene, nel suo rapporto al prefetto di Catanzaro del 20 settembre 1944, che era stato proprio il Settis, mosso da rancori personali verso sindaco e vicesindaco, da ambizione frustrata e da odio personale, ad aver diffuso la notizia del vagone inglese di farina arrivato a Joppolo, mai distribuito. Ma a morire, solo il Capua. Gli altri, latitanti, non erano neanche ripassati da casa prima di scappare in America: e nessuno li aveva visti più.
Il pregiudicato. È morto male Antonio Capua, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalle torture per farlo parlare. Ma qualcuno sussurra, ancora oggi sotto voce per non farsi sentire, che prima di essere rivoltoso fosse stato contrabbandiere, e quello stesso grano che il 12 settembre voleva togliere al podestà per darlo ai paesani, fino a qualche tempo prima lo rivendesse al mercato nero, d’accordo chissà con chi, e chissà come. E proprio per questo, magari «PARLA!» gli urlavano in caserma, un’unghia dopo l’altra… E magari aveva parlato, che vivo era uscito vivo dall’interrogatorio, che gli avevano sparato mentre scappava… E magari scappava anche dalla vendetta. Ma chissà se è vero, che fosse malandrino, e non un capopopolo spinto dalla fame e dalla rabbia, qualcuno da dover screditare, che poi i morti ammazzati diventano simboli, e sono più pericolosi di quando sono vivi. Certo è che quando anni dopo, a Coccorino, qualcuno che ricordava aveva proposto di intitolargli una strada, la Prefettura si era opposta. E oggi il Capua, agli occhi della legge italiana, è ancora un criminale. Un pregiudicato che nessuno ha provveduto a riabilitare.
I fascisti. È morto male Antonio Capua, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalla Calabria troppo povera e troppo debole per spazzare via i veleni fascisti, che dopo l’Armistizio dell’8 settembre su 395 podestà ne erano stati rimossi solo 263: 93 su 152 nel Cosentino, 70 su 89 in provincia di Reggio, 100 su 154 nel catanzarese), scrive Pantaleone Sergi ne “La Calabria liberata”, (Rivista Storia calabrese del ‘900, ed. Icsaic). E un comune su quattro aveva ancora lo stesso padrone di quando era nero, solo che adesso la bandiera era alleata, ed il fascio littorio era stato messo nell’armadio per fare spazio alla Union Jack.
La figlia. È morto male Antonio Capua, il 14 settembre 1943. Sparato alle spalle ufficialmente perché cercava di scappare dalla Calabria dove non era cambiato niente a parte divise e bandiere, morto senza vedere i padroni di oggi con lo stesso cognome di quelli di ieri, quelli che prima fascisti, poi angloamericani, poi democristiani, ed oggi comunque dove serve; morto senza vedere il posto da precaria alla mensa della scuola offerto alla figlia orfana, dopo la guerra, a risarcimento dell’ammazzatina, dalle stesse facce che aprivano le porte di galera e Comune dei tempi del fascio.
I nipoti. E i nipoti dei 400, dei fascisti, dei padroni e dei baroni sono ancora lì, a guardarsi tra di loro, su fronti opposti, vicini tanto da leggersi nel pensiero, che si capiscono a passarsi accanto, non dicendosi niente, ancora imprigionati in rapporti di forza neanche troppo diversi da quelli della guerra, attaccati a quelle montagne dove ieri si moriva per fame, e i vecchi ricordano i loro vecchi raccontare di com’era, quando gli occhi scappavano dalle orbite, ed il respiro fuggiva via, lasciando una povera cosa morta, tutta zigomi e ossa e disperazione.
Servi e padroni. Ma i morti calabresi non sono come i morti emiliani, lombardi, umbri o toscani. Questa terra disarticolata non ha contezza delle vittime del fascismo, della fame della guerra, delle violenze naziste, dei campi di concentramento. Le rivolte, tutte archiviate, derubricate e ricondotte a guerra di poveri, tra poveri, contro i baroni. Ultimo sussulto della crisi di un sistema post feudale. E se la coscienza antifascista c’era, era infantile ed ingenua, era rabbia per l’ingiustizia, e si sarebbe schiantata contro il muro di gomma della “mancata defascitizzazione” (P. Sergi, op. cit.). E i lupi li avrebbero divorati. “Pagarono in pochi, e poco, gerarchetti di periferia e tirannelli in livrea, ma la fecero franca i grandi squali di regime”.
Calabria, 8 settembre 1943. La storia di Antonio è emblematica della terra di nessuno che l’ha fomentata, ben descritta da Sergi (op. cit) all’armistizio, come un paese allo stremo, «un altrove sociale», «una regione in coma», «un territorio completamente disarticolato dalla violenza subita, martoriato prima dalle bombe alleate e poi dalle distruzioni dei tedeschi», che avevano portato le masse alla disperazione, alla rivolta, e scardinato ma non del tutto il sistema incancrenito dei rapporti tardo feudali, i ceti reazionari aggrappati alla rendita parassitaria. «Agli esordi della democrazia, la Calabria era avvitata nella sua disperazione» prosegue Sergi, sottolineando come gli alleati non riuscirono o non vollero modificare più di tanto l’impalcatura dello stato fascista, tollerandone presenze e rigurgiti nelle istituzioni. Sullo sfondo, «un popolo (…) che della democrazia aveva soltanto ‘sentito dire’ qualcosa», e dei padroni che resistevano, dediti al camaleontismo politico, favoriti dai varchi dell’antifascismo e dalla mancata epurazione.
Così, le lotte contadine per la terra e per il pane (Careri, Sellia Superiore, Platì, San Pietro Apostolo, Bovalino, Joppolo; e successivamente Borgia, Taurianova, Villapiana, Santo Stefano d’Aspromonte, Palmi, Crotone, Capistrano, Nocera Terinese, Gizzeria, S. Costantino Calabro e la stessa Catanzaro) represse dalle forze dell’ordine e dalle forze alleate «spesso al servizio dei signorotti locali» costituirono un’occasione mancata. Un fuoco di paglia. Fiammate di contestazione per la mancanza di sussidi militari, alimenti, medicine. Oggi la storiografia ufficiale sta facendo tanto, ma la strada è lunga. Morti i testimoni diretti, sono pochi gli eredi morali delle vittime della guerra, che si interrogano su dove sia nascosta la verità, sul vero significato delle rivolte del ’43. La storia dei movimenti antifascisti, se è passata da qui, di certo ancora deve fare giustizia della memoria delle sue vittime.