La misteriosa “manna” calabrese studiata a San Nicola da Crissa
Uno strano fenomeno, documentato da numerosi storici e scrittori, consentiva la formazione spontanea di una sostanza che veniva utilizzata come medicina dai contadini
di Rocco Greco
La Calabria stupisce sempre. E lo fa soprattutto con la bellezza dei luoghi e con il fascino di una natura capace di mostrarsi anche con misteriosi fenomeni. Per indagare maggiormente questo immenso patrimonio che madre natura ha voluto benevolmente donare ai calabresi, ci vengono in aiuto gli scrittori, i quali evidenziano un fenomeno che, appunto, conferma le «deliziose condizioni ambientali esistenti nell’area calabrese». Scipione Mazzella, storico napoletano, ci dice: «È storicamente accertato che per un lungo periodo di tempo ebbe luogo in Calabria la raccolta della manna». Proprio cosi: la manna!
Ma non la manna che mangiarono Mosè ed il suo popolo per 40 anni nel deserto, bensì quella calabrese che nasceva da un felice connubio di particolarissime condizioni atmosferiche: l’aria, l’acqua, la temperatura, l’umidità, le essenze ed i profumi della flora che si condensavano nell’atmosfera in condizioni favorevoli di «tempi e di luoghi» e davano origine a questa sostanza, anticamente ricercata e prelibata, tanto da farne un redditizio commercio, oggi completamente scomparsa. Un particolare luogo di produzione di questa manna veniva indicato nella Locride.
Tanto lo dobbiamo al professore Nicola Gerardo Marchese di S. Nicola da Crissa (VV) che ci ha lasciati nel 2009. Egli è stato docente incaricato presso l’università Italiana per stranieri di Perugia, componente della commissione per la ricerca scientifica e tecnologica in Calabria del Consiglio Nazionale delle Ricerche e tante altre cose. Nella sua “Calabria dimenticata”, (Ed. Stagrame, 1982) ci illustra quel “significativo fenomeno che conferma la bontà delle condizioni ambientali esistenti nell’area calabrese”.
Nel suo testo, citando Scipione Mazzella, nel descrivere le attività della cittadina di Locri agli inizi del XVII secolo, menziona il lavoro dei locresi relativo alla raccolta della «delicatissima manna» e ci dice ancora che la manna non era altro che una «certa rugiada, un liquore soave che casca durante la notte dal cielo adagiandosi sulle foglie e sopra i rami degli alberi, sull’erba, sulle pietre ed anche per terra. Questa, condensandosi in un certo spazio di tempo, diventa granulosa a modo di gomma e questa propriamente viene chiamata manna di foglie. È minuta, di granella trasparente, molto simile a piccoli granuli di mastice bianco, molto dolce e saporita al gusto».
Diverse le qualità di questa «manna» che ci vengono descritte: la prima, per qualità, era quella che si posava sulle foglie, la seconda era quella che cadeva sui rami degli alberi, la terza, più scadente delle prime due, era quella che si raccoglieva dal terreno, ed era composta di granelli più grossi e di colore piuttosto scuro.
Il fenomeno e la relativa raccolta avveniva dai primi di giugno ai primi di agosto e si verificava durante le fresche notti d’estate, particolarmente dopo giornate molto secche e calde.
La raccolta veniva effettuala di buon’ora prima del levar del sole al fine di non farla colpire dai raggi che altrimenti la facevano evaporare.
Nei periodi più propizi, cioè quando la caduta si preannunciava più abbondante del solito, i contadini usavano tagliare addirittura i rami degli alberi e depositarli nei fienili al fresco per poi raccoglierla con comodità già indurita durante le ore del giorno.
L’utilizzo di tale sostanza era plurima. Veniva somministrata come «bevanda medicamentosa» alle donne in stato di gravidanza ed anche ai bambini. Serviva anche come purgante e nella lotta al colera. Era altresì usata nelle infezioni, nelle malattie del petto e della gola e nelle famiglie dei contadini, dove l’uso era abbondante, era considerata un vero e proprio toccasana. La sua conservazione non andava oltre l’anno e pertanto si rinnovavano le scorte ad ogni raccolto.
Leandro Alberti, nella sua «Descrittione di tutta Italia» del 1577, parla della manna che veniva raccolta nella città di Thuri (Sibarite) con le stesse modalità ed identiche caratteristiche della Locride.
Marchese conclude dicendo che la manna essendo un fenomeno naturale, e quindi strettamente legato a determinati fattori ambientali, non sempre ripetibili, esso ha stimolato la fantasia dei contadini calabresi che lo consideravano, «come la biblica manna del deserto, un prodotto del Cielo ed un segno di benevolenza della Provvidenza».
Ma andiamo a vedere dove troviamo, ancora, testimonianze della manna calabrese. È verso la fine del ’400 che veniamo a conoscenza del fatto che si verificarono piogge di manna in Calabria. Gioviano Pontano, massimo rappresentante dell’umanesimo napoletano del quattrocento, morto nel 1503, canta la manna calabrese nel carme «De pruina, et rore, et manna».
Nel 1505 di Piero Del Riccio-Baldi, insigne umanista (Firenze 1465 – ivi 1507) nel suo «De honesta disciplina» dice: Ai nostri tempi è molto stimata quella che chiamano la manna calabrese. Antonio Musa Brasavola (Ferrara 1500 – ivi 1555) medico e botanico che contribuì a rendere l’Università di Ferrara centro europeo di studi naturalistici e botanici, riporta che a Napoli durante il regno della regina Elisabetta, morta a Ferrara nel 1532, era stato messo un dazio sulla manna, segno che la quantità raccolta e il giro di affari che ne stava dietro erano notevoli.
Oggi, quelle condizioni favorevoli non esistono più e della manna non si ha più memoria, nemmeno tra le antiche culture contadine, dove ancora sopravvivono, eppure il miracolo della manna è esistito, a testimonianza che la Calabria davvero è stata una regioni da sempre tenuta in grande considerazione dal Creatore, forse un po’ meno dai calabresi!