Morte di una provincia: quando le chiacchiere vengono al pettine
Non prendetevela con lo Stato o col destino “cinico e baro”. Se Vibo conta come “il due di coppe con la briscola a mazze” la colpa è anche (e soprattutto) nostra. E di chi mandiamo a rappresentarci.
La prossima chiusura della Prefettura di Vibo Valentia e di altri presidii territoriali provinciali sembra quasi sia una cosa eccezionale ed imprevista, non ci voleva di certo la zingara per capire che col “riordino” delle province le scatole più piccole ed inefficienti come quella vibonese sarebbero state accorpate e svuotate di quei pochi contenuti che ancora rimanevano in essere. Lo Stato ragiona in termini di buona amministrazione con la diligenza del buon padre di famiglia, che poi non sappia tradurre le già annacquate buone e deboli intenzioni in fatti, poiché deve tenere a bada mille esigenze, particolarismi e poltrone per amici ed amiconi di merende, è un altro discorso.
Vibo torna ad essere quella sonnacchiosa cittadina di provincia cresciuta a dismisura grazie alle razzie palazzinare dei barbari pecorai e alla mancanza di un criterio logico che guardasse il futuro, assaltata dai cittadini dei paesi viciniori che, col tempo, pur prendendo la cittadinanza vibonese, sono rimasti invece “vibitani”, ignari abitanti di un luogo di cui non conoscono né la memoria né l’identità. Ci riempiamo gli occhi di tramonti e le pance di tavole imbandite con prodotti locali, siamo smarriti e delusi, eternamente illusi dal nano di turno che proietta la sua ombra sul muro dell’ignoranza sembrando un gigante.
Assisteremo da qui al 31 dicembre 2016, data in cui cesseranno le funzioni della Prefettura, a un’interminabile passerella di mezze seghe, ascolteremo fantomatiche promesse, formuleremo velate minacce di serrate, scioperi e marce su Roma, qualche sparuta fiaccolata di qualche illuso e ingenuo credulone per far evitare o postergare l’irreparabile. Siamo rimasti col cerino in mano dopo che per anni abbiamo dilapidato risorse e mezzi, perso finanziamenti nazionali ed europei ed esserci riempiti di apparenza più che di sostanza, tragico epilogo già scritto e che i più intelligenti e disincantati avevano intravisto in tempi non sospetti, invece la politica nostrana è stata colta di sorpresa… Dio mio, ma chi mandiamo a Roma a scaldare gli scranni di Camera e Senato?
“Si chiude un’epoca” sentivo dire in giro. Si? Ma quale epoca, quali tempi d’oro, qui la cosa pubblica ha riempito nel tempo soltanto le tasche di pochi intimi non lasciando sul territorio nessuna prova tangibile e fruibile di opera pubblica. Oggi abbiamo e raccogliamo quel che ci meritiamo e basta con le ipocrisie e le lavate di faccia, non ci servono le pacche sulla spalla, le strizzate d’occhio e i “ti ci porto io” per risolvere ed ottenere un nostro diritto, abbiamo tutti fallito come collettività e comunità e tutti ne siamo responsabili. È finito il carnevale, ritorniamo ad essere quello che eravamo: il nulla! Spereremmo sempre in un sussulto di orgoglio, in uno slancio di dignità, ma così non è ed onestamente, cui prodest? Ai nostri figli che studieranno fuori e non faranno ritorno? Alle risorse drenate da un territorio già povero e spese e investite fuori?
Facile fare proclami, con le barche all’asciutto, risibili e poco credibili quei signori in giacca che si spellano le mani e si sgolano in chiacchiere dicendo tutto e il contrario di tutto nei salotti buoni, o presunti tali, e per giunta fuori regione. È un’apparenza di facciata e finto perbenismo a coprire un fare e un agire cripto mafioso e complice, meschino e rattuso, dove i cantori dei silenzi altro non sono che prezzolati menestrelli di un regno incontrastato di pataccari e pennacchisti di meretrici intellettuali a buon mercato, coacervo di finte associazioni monocomponente, siamo un quadro pietoso e crosta d’imbianchino più che opera d’arte di pittore in uno Stato allo sbando che ci lascerà ancor più soli e smarriti senza la Prefettura, facili prede dei lupi e delle faine, di schiere di colletti bianchi collusi e proni alla ‘ndrangheta, cittadini di una repubblica delle banane cui ricadiamo amministrativamente, noi a nostra volta e nostro malgrado, appendice di quella appendice geografica chiamata, non a caso, Italia.