Le vacanze pasquali dello studente fuorisede
L’altro giorno da qualche parte in un blog ho letto la lettera di una madre al figlio che studia fuori regione. Si raccontava l’emozione in occasione della Santa Pasqua, di riaccoglierlo in casa, di preparargli il letto, pulire la camera della fanciullezza, fargli trovare il frigo pieno di tutte le pietanze ed i suoi cibi preferiti.
di Roberto Maria Naso Naccari Carlizzi
Mi sono rivisto in quelle parole studente universitario, quando appena iscritto a Roma, mia madre con i miei fratelli mi accompagnò a prendere possesso di casa. Nove valige con lenzuola, coperte, pentolame e quanto altro ancora. Arrivammo alla stazione Termini in preda ad uno sciopero generale dei trasporti, taxi inclusi. “Cominciamo bene”, dissi tra me e me. Un tassista anziano col suo Fiat 124 giallo, dietro le insistenze e le preghiere di mamma ebbe pietà di noi e ci accompagnò, tra un nugolo di insulti e di “crumiro” ad opera dei colleghi che cercavano di distoglierlo dall’opera di bene. Rifiutò anche una lauta mancia che mia madre porse con gratitudine e imbarazzo per le offese subite dai colleghi.
Quei giorni in cui mamma fu a casa, la rivoltò come un calzino, comprò quanto mancava: una libreria, una lampada da tavola, un lettino in più in caso di necessità e tante piccole cose e dettagli. Rese quella casa spoglia e sguarnita in un nido accogliente dove nulla mancava. Finché mamma rimase in casa con i miei fratelli ancora non mi sentivo scaraventato nel mondo dell’università. Percepì di un colpo la responsabilità e la gravità del peso e dello sforzo economico quando chiusa la porta dell’ascensore mamma coi miei fratelli andò via.
L’ascensore scese al pian terreno e la rividi nella tromba delle scale mandandomi con la mani un bacio e la raccomandazione: “studia!” Mi ricordo me stesso sul letto a piangere impaurito per quanto mi attendeva. Ricordo i viaggi di rientro a casa come piccoli bilanci personali. Mi chiedevo se fossi stato degno di guardare negli occhi mia madre, se avessi fatto il mio dovere e meritassi il suo rispetto, la distanza, i sacrifici, le rinunce di una donna rimasta troppo presto sola e vedova. Ogni santo natale, ogni santa pasqua ogni estate ho fatto ritorno per anni a casa. Nel rientrare, nel riprendere possesso dei miei affetti e del mio passato, passavo di stanza in stanza alla ricerca di lievi o radicali mutamenti.
Non era l’epoca dei media digitali così esasperati come adesso, non avevamo whatsapp per mandarci foto o messaggi, c’era ancora il gusto di scriversi lettere, eppure non è passato poi così tanto tempo. Ripresa coscienza di casa, poi passavo al mio paese, alla mia città, tant’è vero che appena arrivato, la prima cosa che facevo era il giro sul corso, sul lungomare a riprendere contatto visivo e fisico col mio porto, col mio mare. Il treno solito con cui scendevo arrivava alle 22 e passa, salvo ritardi, quindi non s’incontrava per le strade quasi nessuno, un deserto immobile rotto ogni tanto da qualche stereo ad alto volume di qualche utilitaria parcheggiata vista mare con giovani ragazzi dentro, mentre fuori uscivano rivoli di fumo e noia dalle fessure dei finestrini a manovella.
Dopo aver dormito nel mio lettino singolo, tra lenzuola pulite e sempre dopo aver fatto la doccia d’ordinanza dato che “sapevo di treno”, al risveglio l’emozione di fare in fretta per uscire a rivedere gli amici e risalutare i posti e i luoghi, colla speranza di novità e cambiamenti. Rivisti gli amici stanziali, e salutati quelli rientrati come me, al secondo giorno, dopo aver passato al setaccio strada per strada del mio paesino, constatavo, mio malgrado, l’assoluta immobilità, non era cambiato nulla, e quei pochi cambiamenti sovente erano in peggio.
Nel mio giro d’ispezione, mi risuonavano sempre in mente i versi della canzone Che sarà, cantata però da Jimmy Fontana, non quella dei Ricchi e Poveri Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio abbandonato, la noia, l’abbandono il niente son la tua malattia … – … gli amici miei son quasi tutti via, e gli altri partiranno dopo me …. Cabine telefoniche vandalizzate, panchine divelte, alberi con i rami spezzati, scritte sui muri, buche per le strade e quant’altro ancora a macinare la mente ed umiliare il cuore, in più la desolazione era ancor più grande aumentando nel tempo le imprese chiuse e sempre meno gente disposta ad investire e rischiare, anzi con tante finestre chiuse ed appartamenti vuoti.
Ho vissuto parecchio tempo fuori, tanto tempo all’estero, ho provato a portare del mio, una visione esterna frutto prima degli studi e poi del lavoro, ma invano. Sovente ho avuto il sentore di attraversare un deserto di silenzio ed indifferenza, parlare inutilmente ed a vanvera, lasciando le parole al vento, ho trovato contrasti ed invidia, cattiveria gratuita e malelingue, ho perso la guerra dei prìncipi, questione di accenti lo so, poca cosa e magra consolazione, ma è così, ho fallito. E ho pensato allora a come sarebbe stato il mio cammino, la mia vita, se poi davvero non fossi più rientrato, mio malgrado a casa, nei luoghi della mia infanzia. Ho interrotto una strada per ritornare, umiliato una parabola che non era ancora discendente ma aveva ancora tanto da salire, declinato inviti e proposte di lavoro nei luoghi della Castilla dorata, la cuna del castellano puro. Sono qui, sono rientrato e non ho potuto far niente, non ho potuto e saputo forzare il cambiamento, scardinare il pregiudizio, rompere la monotonia di una società cristallizzata in quei quattro circoli di amiche ed amiconi che dettano legge, dettano moda, dettano i tempi.
E i cambiamenti sono solo apparente facciata, sia nelle istituzioni che nelle altre realtà, dinastie rapaci ed inette di nonni, padri e figli a passarsi il testimone di scranni comunali, provinciali e regionali dalle sedute lucide quanto inutili, in studi professionali resi opulenti da incarichi politici, parcelle e consulenze di favore, di finte diatribe ed opposizioni che precedono poi le comuni abbuffate e le scialate, di contributi pubblici a finti invalidi, finti disoccupati e finti scemi, di trasformisti e moralisti che fanno incetta di incarichi e pennacchi se non addirittura poi, non lo comprano proprio, dove prolificano associazioni e fondazioni riserve di caccia e voti, funzionali ad un sistema di favori e mazzette dove ci si scambia e presta oltre ai silenzi anche i portaborse.
Un paese dove i santi in processione sono portati a spalla dalle consorterie malandrine e dai ladroni, un secondo quanto inutile calvario per quel povero Cristo e quella povera Vergine Maria che se potessero prenderebbero a colpi di croce sia i portantini che il pubblico assiepato ad assistere con smartphones e telecamere manifestazioni che sono diventate ormai solo vacuo folklore di paese. E adesso? Gli amici dopo quasi vent’anni fuori sono rimasti in pochi, molti sono sbiaditi, chi si è sposato, chi ha figli, chi è single di ritorno, chi è partito e non ha fatto più rientro, chi ha fatto perdere le sue tracce. Ci si ritrova a Natale, Pasqua ed agosto, colla prima domanda che prima ti facevano e adesso ti ritrovi a fare: “quanto rimani?”.
E poi la pizzata d’ordinanza dove già trascorsi i primi 15 minuti di full immersion di notizie fitte, ti rompi le palle per il resto della serata, non avendo già più nulla in comune se non le lunghe e lontane partite di pallone sotto casa e due pietra a far da pali. Fossi quella mamma, pregherei Dio che mio figlio non rientrasse più, per chi rientra qui, c’è la morte sociale e professionale, sempre che non si rientri nel giro dei clientes o dei nepotes, allora è tutt’altra musica, ma questa la lasciamo ai suonatori, a quella banda di strimpellatori e principianti che regolano i destini, le risorse ed il futuro della nostra terra colla presunzione e l’arroganza di eseguire sinfonie.
Buona Pasqua.