A scuola nel Vibonese | Parlano i docenti: «Ecco cosa ci piace del nostro lavoro»
«E su telefonini e compiti la pensiamo così...». Il pianeta scuola spiegato e visto da cinque insegnanti
«Gli insegnanti sono gli unici a scambiarsi gli auguri di buon anno con quattro mesi di anticipo». In queste parole c’è tutto il senso dell’appartenenza dei docenti a un universo lavorativo che ha caratteristiche uniche. Perché il “pianeta scuola” è davvero un mondo a parte, che ha i suoi ritmi di rotazione e rivoluzione, con un anno che dura 9 mesi, forse non a caso proprio come una gestazione umana. Ma soprattutto ha un fulcro, l’educazione e la formazione delle nuove generazioni, intorno al quale tutto ruota o, almeno, dovrebbe farlo.
Abbiamo chiesto ad alcuni docenti vibonesi di raccontarci quale sia la spinta che li motiva, ma anche quali siano i timori e le cose che proprio non sopportano di questo lavoro. Poi li abbiamo sollecitati a dirci come la pensano su due argomenti di grande attualità, che sono in questi mesi sotto la lente d’ingrandimento del ministero dell’Istruzione: l’uso dei telefonini in classe e l’ipotesi di eliminare i compiti a casa.
Ecco cosa ci hanno risposto.
Lucia Pizzonia, 36 anni, insegnante di sostegno. «All’inizio della scuola auguriamo buon anno a noi stessi, ma pensando soprattutto ai nostri alunni, per i quali spendiamo energie e notti insonni per assicurare loro un percorso sereno e proficuo. Per quanto mi riguarda, quest’anno seguirò un bambino con una patologia piuttosto importante e impegnativa. Il mio obiettivo primario è riuscire a trovare al più presto il giusto approccio per mettermi in sintonia con lui e consentirgli di crescere e integrarsi pienamente nella classe. Sarà faticoso, certo, ma io adoro questo lavoro e non temo le sfide che mi mette davanti. L’unico vero timore che dovremmo avere noi insegnanti è quello di perdere l’entusiasmo e la positività che chi svolge questo mestiere dovrebbe sempre garantire. Perché “nessun bambino è perduto se ha un insegnante che crede in lui”. E per credere nei ragazzi dobbiamo innanzitutto credere nel nostro lavoro e farlo con passione. Per quanto riguarda l’uso del cellulare in classe, sono d’accordo, anche se ovviamente occorre un utilizzo ragionato di questi mezzi. Ma una scuola che intenda stare al passo con i tempi non può che tenere conto di questi strumenti. Sull’eliminazione dei compiti a casa, invece, sono più scettica. Credo che in Italia sia ancora un obiettivo lontano dal raggiungimento, perché bisognerebbe aumentare il monte ore settimanali e garantire attività di laboratorio e di apprendimento per scoperta. Per ora, quindi, non se ne parla».
Francesca Galati, 35 anni, insegnante di Italiano, Latino, Storia e Geografia. «Mi piace molto il mio lavoro, interagire con i ragazzi mi offre punti di vista diversi e spesso inaspettati per leggere la realtà, ponendomi in una posizione privilegiata rispetto a chi non svolge questa professione. Il timore più grande è probabilmente non riuscire sempre a tirar fuori il talento che ogni ragazzo possiede e che spesso si rende conto di avere solo in età adulta. L’aspetto che meno tollero, invece, è la rigidità mentale di alcuni colleghi, la poca voglia di condividere le esperienze positive e le attività svolte con successo durante gli anni scolastici. Come se la piena riuscita di un percorso didattico o l’affermazione di taluni alunni fosse merito solo di alcuni professori e non di una collaborazione attiva tra docenti. Un’altra cosa che reputo sbagliata sono tutte quelle attività o uscite didattiche che non tutte le famiglie si possono permettere, causando una sorta di “selezione naturale” per i costi esosi. In merito all’uso dei cellulari in classe, non sono d’accordo, tendono a distrarre i ragazzi che già utilizzano in modo spropositato lo smartphone. Le scuole possiedono aule multimediali con Lim e computer connessi a Internet e credo che questi mezzi bastino per sfruttare le risorse della rete. Sui compiti a casa, ritengo che siano molto importanti per interiorizzare i concetti acquisiti a scuola, contrastando l’approccio superficiale che molti ragazzi hanno verso le cose che studiano. È vero che in alcuni Paesi europei la pensano diversamente sui compiti, ma hanno anche orari scolastici più lunghi e molte attività extracurriculari».
Anna Crupi, 56 anni, Scienze umane e Filosofia. «Del mio lavoro mi piace tutto, ma in particolar modo il contatto quotidiano con i ragazzi. Le difficoltà maggiori ma anche le maggiori motivazioni ci sono quando lavoriamo con studenti che vengono da contesti difficili, non solo sociali ma anche familiari. La scuola, allora, serve a far capire loro che un’altra vita è possibile, un altro modo di essere, di pensare è a portata di mano. In questo senso la scuola è bellissima. Falliamo, invece, quando i ragazzi escono dalla scuola così come sono entrati. Un grande successo, ad esempio, è avere a che fare con ragazzi che nutrono sentimenti omofobi e poi, alla fine della scuola, vederli affrontare il mondo con un’apertura mentale che prima non avevano. Il cellulare in classe? Se non lo usano per andare continuamente sui social, va bene, perché può essere un valido strumento di studio. Anzi, credo che potremmo fare la nostra parte anche per insegnare loro come usare al meglio Internet. Non sono d’accordo, invece, sull’eliminazione dei compiti. I ragazzi devono imparare a studiare, devono stare sui libri, perché acquisire una metodologia di studio è importantissimo. Ciò non toglie che i ragazzi abbiano bisogno anche di “oziare”, nell’accezione più nobile del termine. Quindi i compiti vanno dati senza che diventino un fardello».
Elena Garrì, 43 anni, insegnante di Italiano, Storia e Geografia. «Per seguire il mio sogno di fare l’insegnante ho rinunciato a un contratto a tempo indeterminato alle Poste, pur sapendo che sarei andata incontro ad anni e anni di supplenze saltuarie. Dal 2009 sono di ruolo, ma il mio lavoro mi è piaciuto sin dall’inizio, nonostante i sacrifici che ho dovuto affrontare. Ecco perché non sopporto quando le istituzioni sottovalutano il ruolo degli insegnanti. Spesso le riforme si accavallano, ma gli insegnanti continuano a essere poco considerati, eppure il nostro lavoro implica enormi responsabilità. In merito al telefonino in classe, non sono d’accordo. Amo la tecnologia, ma il cellulare è troppo dispersivo a scuola. Sui compiti non mi convince che si passi da un eccesso all’altro. Troppi o niente è comunque sbagliato. Come al solito la soluzione sta nel mezzo».
Valentina Procopio, 36 anni, insegnate dell’area linguistica. «Sono un’insegnante innanzitutto perché amo questo lavoro. È una passione che mi ha trasmesso mia madre, anche lei docente. Sin da piccola a casa sentivo il “profumo” della scuola e questo mi ha spinto a intraprendere questa professione. La parte burocratica del mio impegno scolastico è quella che sopporto meno, anche se oggi, grazie alla digitalizzazione di molti documenti, a cominciare dai registri, il carico è minore e si risparmia molto tempo potendosi concentrare maggiormente sulla didattica. Riguardo al cellulare lasciato nella diponibilità degli studenti, credo che si possa fare, ma con moderazione. Ciò che mi fa propendere per l’utilizzo di questo strumento anche a scuola è che si avvicina maggiormente alla realtà dei ragazzi e, quindi, può facilitare alcuni percorsi di apprendimento. Sui compiti, invece, ritengo che vadano mantenuti, perché sono necessari a consolidare quanto imparano in classe. Più critica, invece, lo sono nei confronti dei compiti assegnati per le vacanze, a volte davvero troppi».