Il culto della dea Pandina, dalle monete coniate a Hipponion ai detti popolari vibonesi
Folclore, storia e mito si mixano intorno alla figura di una divinità non tradizionale, oggetto di studio da parte della scrittrice, epigrafista e docente Maria Concetta Preta. Testimonianze del culto sono ad oggi riscontrabili nelle monete custodite al Capialbi
L’antica Hipponion venerava una divinità estranea al pantheon greco ma venerata pure a Terina, città del Golfo Lametino, con cui si era alleata, aderendo ad una confederazione anti-bruzia. Siamo nel IV secolo aC e la polis fu conquistata dai Brettii che la occuparono fino all’arrivo dei Romani e alla fondazione della colonia latina di Valentia nel 192 aC. «Si tratta di un periodo di stravolgimenti politici ed etnici per Hipponion e, di conseguenza, giungono in città culti di matrice non ellenica o ritornano culti pre-esistenti. L’una e l’altra cosa accade in relazione a Pandina». Sul culto della dea, la docente, epigrafista e scrittrice Maria Concetta Preta ha scritto un saggio, pubblicato diversi anni addietro sulla rivista Monteleone. Uno studio di grande importanza per la storia della città, che riconsegna tracce di un passato sconosciuto ai più.
Ma chi è Pandina? «È una dea poco nota ma che viene conosciuta per un carattere folcloristico. La sua figura è presente in un detto popolare di forte impatto, poiché in dialetto e perpetrato sino ad oggi: “Mala Pantina mu ti pigghjia”, ovvero “Che tu possa incappare in una disgrazia”. Eppure a Pandina, sulla cui deità non si discute, non ascriviamo in Vibo Valentia, almeno ad oggi, alcun rudere di tempio o ex-voto o iscrizioni (cosa che avviene per Demetra, Kore/ Persephone o altri culti), ma una doppia serie di monete dove campeggia da protagonista con la legenda: Pandina associata sempre all’etnico Eiponieion, ossia Hipponion. Come dire: un legame indissolubile tra la figura femminile e la città, che destinò un tributo importantissimo a questa divinità femminile tanto da dedicarle due emissioni di dracme». La Preta ricorda che la polis possedeva la zecca e batteva moneta propria. Testimonianze sono ad oggi custodite al Museo archeologico di Vibo. Le origini del culto non sono però certe: «In mancanza di notizie, a tal riguardo, solitamente, si creano due correnti di pensiero: l’autoctonia e l’importazione. E, naturalmente, c’è anche chi cerca di mediare tra i due poli opposti. Problema per tutti è stato l’eccezionalità del “caso Pandina”, la sua unicità. Tranne Hipponion e Terina, non ne abbiamo notizia in tutta l’età classica. Io stessa -ammette la docente e scrittrice – nel cimentarmi in quest’impresa, ho per prima cosa consultato dizionari, glossari, lessici del mondo antico e ho fatto il classico buco nell’acqua. Pandina è del tutto assente nelle fonti antiche di matrice storico-letteraria. Un caso analogo l’avevo già vissuto a proposito della ninfa Scrimbia».
Le origini del culto
Non mancano, però, delle ipotesi sulle origini di questa venerazione: «Secondo l’ipotesi dell’autoctonia, sostenuta da Jacques Heurgon, Pandina avrebbe origine brettia, osca o pre-osca, o enotria. Il nome sarebbe ascrivibile ai toponimi enotri Pandosia e Bandusia (degli Enotri i Brettii sono i diretti discendenti). Pandina sarebbe un retaggio religioso proto-italico oscurato poi dai culti ufficiali dei colonizzatori greci, perciò il nome è ignoto alla teonomastica ellenica. Presente sulle monete solo di Hipponion e Terina (città alleate contro i Brettii), sarebbe l’adattamento indigeno del culto di Cerere, conosciuta come Panda presso i latini (dal verbo pando: apro, riferito alla schiusura delle spighe, operazione dal valore magico-rituale e accostata al fatto che nelle società arcaiche il cibo è frutto del lavoro ma viene anche dagli dei)».
Invece, una tradizione di studi più antica, assimilerebbe Pandina a due divinità del pantheon greco e cioè: Selene/Ecate, (secondo il Mellingen), la dea lunare che compare come guida durante i momenti di passaggio e i riti transizione post mortem e Persephone, il cui culto in Hipponion è ben attestato da una serie di materiali (pinakes, ex-voto, ceramica, statuaria) e da notizie nelle fonti antiquarie ed epigrafiche (presenza di un Persephoneion alla Marina), e nel mito (Strabone riporta la tradizione popolare secondo cui proprio nel territorio hipponiate Kore era stata rapita da Ade, mentre era intenta a raccogliere fiori e perciò le donne hipponiati s’inghirlandavano di fiori durante le feste rituali). Il Mommsen assimilava Pandina a Kore ed in effetti le due dee sono strettamente collegate: Ecate (con Helios) assiste al ratto di Kore e diventa messaggera di Demetra che va alla sua ricerca. Quando Persephone ritorna ciclicamente sulla terra per stare con la madre e risvegliare la natura, “Ecate regina” le sta accanto e, secondo alcune versioni del mito religioso, è sorella della dea, la accompagna nei momenti di discesa agli inferi e di ascesa e scorta le anime verso l’Ade». In una terza ipotesi, si prende «in considerazione la presenza del granchio su monetine enee (bronzee) in cui Pandina indossa un copricapo realizzato con una corazza di granchio, la cui simbologia riporta alla rinascita e al ciclo degli elementi naturali della Vita: terra, acqua e soprattutto il cielo, connesso alla Luna/Selene/Ecate. In sintesi: Pandina è figura ancestrale, legata – a mio avviso – a una divinità originaria locale preesistente alla sub-colonizzazione da parte di Locri Epizephiri di Hipponion, associata sia al culto cerearicolo sia a quello ctonio».
Il detto vibonese
Tra le ipotesi etimologiche, vi è la derivazione dal termine greco “paura”, perciò «Pandina sarebbe “colei che genera ogni paura”. «In latino esiste l’aggettivo pandemus: endemico, riferito pure al male, al malanno, alle malattie. Nell’inno omerico a Selene è citata pandemia/pandeia: il Mellingen ritiene che Pandina ne sia l’adattamento locale, ma io sono scettica, non credo a una derivazione “aulica” di tipo filosofico-letterario del rito, anche se in Hipponion era praticato l’orfismo, che ben conosciamo dall’arcinota laminetta aurea trovata nel 1969 e custodita al nostro Museo Archeologico. Credo, sinceramente, ad un sostrato religioso di matrice popolare indigena, su cui s’innestò il culto greco. Sulle monete colpisce la presenza del flagellum come pure della lancia che la dea brandisce: alludono alla vendetta, alla punizione divina e ciò richiama la paura. In effetti nel vibonese fino a qualche generazione fa si usava l’imprecazione: “Mala Pandina ti pigli”. Il dialetto si è fatto, da sempre, portatore di “verità-altre” da leggere in controluce, da decifrare. Chi sarebbe in fondo la Pandina dell’invettiva contro un nemico? Una divinità ctonia, primitiva, arcaica, una sorta di Ecate, una regina degli inferi, sorella di Persephone, che promette vendetta, temuta più che venerata. È colei – chiosa la Preta- che genera terrore». A questa divinità, la scrittrice e docente ha dedicato una lirica e anche un giallo storico dal titolo “Il sigillo della dea Pandina”.
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