Vibo e il suo straordinario reperto: la laminetta aurea di Hipponion fra anima, morte e Aldilà
E' il pezzo di maggior pregio conservato al Museo archeologico Capialbi e racconta il culto dei defunti nell'antichità al centro anche di uno studio della docente Giuliana Barbuto. Ecco la storia di un rinvenimento eccezionale
È uno dei pezzi di maggior pregio custoditi al Museo archeologico Capialbi di Vibo Valentia. Racconta del culto dei defunti presso civiltà antiche e descrive il rapporto tra anima, morte e Aldilà. La laminetta orfica di Hipponion è un reperto straordinario che, a distanza di decenni dalla scoperta, continua ad affascinare studiosi e appassionati di storia e archeologia. Proprio la laminetta, risalente alla fine del V, inzio del IV secolo a.c. è al centro di uno studio condotto da Giuliana Barbuto, vibonese. La docente di Lettere classiche ha conseguito all’Università della Calabria la laurea magistrale in Scienze dell’Antichità con una tesi in “Epigrafia greca” dal titolo “La laminetta aurea di Hipponion. Analisi epigrafica e commento storico-linguistico”. [Continua in basso]
La laminetta orfica, la storia del ritrovamento
È formata da un sottilissimo foglio d’oro, di piccole dimensioni, con inciso un testo in alfabeto greco, distribuito in 16 versi esametri (verso tradizionale dell’epopea greca usato anche per la poesia religiosa). È stato rinvenuto nel 1969 durante i lavori all’ex palazzo Inam da parte dell’archeologo Ermanno Arslan.
Più dettagliatamente, nel mese di marzo, nel settore A dello scavo, tra via Tommaso Florio e via Murmura, è venuta alla luce una tomba alla cappuccina di embrici (tipo di inumazione) denominata tomba numero 19: «La zona corrisponde all’area della necropoli occidentale della antica Hipponion. Qui venne trovata la laminetta, ripiegata quattro volte su sé stessa e posta all’altezza dello sterno dell’inumato conservato nel sepolcro. Apparteneva ad una donna. Era piegata – spiega la docente Barbuto – probabilmente per una funzione rituale. Doveva sottrarre agli occhi dei profani il contenuto del testo, riservato ai soli “mystai”, gli iniziati ad una dottrina misterica. Per alcuni orfica, per altri dionisiaca, per altri ancora orfica-pitagorica. L’ipotesi più accreditata è che si tratti di dottrina orfica. Non tutti sono d’accordo». All’interno della tomba vennero rinvenuti anche altri oggetti, tra cui vasi e lucerne, tutti databili presumibilmente intorno al V secolo a.c. I reperti sono custoditi nel Museo “Capialbi”.
Le istruzioni per l’Aldilà
Ma quale funzione aveva? «La laminetta – scandisce la docente Barbuto – presenta un testo che rappresenta un vero e proprio vademecum. Contiene infatti le istruzioni che l’anima doveva seguire per raggiungere uno stato di perenne beatitudine, promesso con l’iniziazione alla dottrina misterica. Seppur molto lontanamente, lo possiamo paragonare al nostro concetto di paradiso».
Il reperto custodito a Vibo ha però una particolarità degna di nota, ovvero «non solo testimonia la presenza del culto orfico (o simile) ad Hipponion. Ma è anche la più antica delle laminette finora conosciute. È anche la più lunga. Si trova in uno stato di buona conservazione e le lacune presenti non interferiscono con l’iscrizione». Esistono altre lamine d’oro, circa una quarantina nel Mediterraneo (non orfiche), ma nessuna conserva il testo completo, solo quella trovata a Vibo. Da qui l’eccezionalità del reperto.
La laminetta orfica, il testo
La laminetta «dava alcuni riferimenti di natura geografica, delle vere e proprie indicazioni alle anime dei defunti. In particolare ricordava solo di non fermarsi alla fonte sita presso un cipresso bianco (probabilmente la fonte dell’oblio) poiché bevendo quell’acqua avrebbero dimenticato la vita passata e sarebbero rinati in un nuovo corpo. Gli orfici credevano infatti nella metempsicosi, la reincarnazione delle anime.
Il defunto doveva quindi proseguire fino alla “fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne”, la memoria. I custodi chiederanno all’anima cosa cerca e la stessa dovrà fornire una precisa risposta: “Sono figlio della terra e del cielo stellato”, che consentirà il passaggio e l’arrivo nel luogo di beatitudine per ricongiungersi con la divinità».
«Sono figlio della terra e del cielo stellato»
È la frase più suggestiva contenuta nella laminetta. Ma anche la più enigmatica: «Gli orfici avevano una cosmogonia, mito sull’origine del mondo, particolare. Credevano che gli uomini fossero nati dalle ceneri dei titani che avevano divorato la piccola divinità Dioniso Zagreo. Per punizione, Zeus fulminò i titani dalle cui fiamme e ceneri nacquero i primi uomini. Per questo conservano sia una natura peccaminosa che divina».
A distanza di 54 anni dalla sua scoperta, il reperto vibonese continua ad essere analizzato e studiato: «Basta una diversa interpretazione di una parola e il significato della frase può variare. Non si lascia decifrare con facilità e questo alimenta il suo mistero», conclude la studiosa.