La vittoria di Lepanto fu anche merito dei calabresi
La spedizione della Lega Santa venne organizzata lungo le coste calabre, ove la flotta cristiana effettuò ripetute soste per riparare i legni, rifornirsi di viveri e, soprattutto, imbarcare uomini accorsi numerosi attraverso un centro di reclutamento istituito a Tropea.
In un giorno d’estate del 1571 la nave ammiraglia della Lega Santa gettava le ancore nelle acque di Calabria. Sull’ammiraglia, proveniente da Napoli, c’era Giovanni d’Austria in persona, il figlio naturale dell’imperatore Carlo V, comandante supremo dell’armata cristiana diretta in Levante per combattere contro i turchi.
Egli cercava un pilota provetto, buon conoscitore dei fondali e delle correnti dei mari meridionali e di Levante, nonché esperto delle rotte che la flotta avrebbe dovuto percorrere per portare guerra ai musulmani. Da informazioni assunte, il nocchiero più idoneo ad assolvere un incarico così importante era Cecco Pisani da Belvedere. Il nocchiero calabrese salì sull’ammiraglia della Lega, entrando così nella storia.
Intanto Marcantonio Colonna, capo delle forze navali della Santa Sede, nel suo viaggio verso Messina per congiungersi con le forze alleate, sbarca a Tropea, da dove raggiunge Monteleone per far visita alla sorella Gerolama, sposa di Camillo Pignatelli. Tra i monteleonesi ingaggiati dal Colonna per l’impresa di Lepanto, la cronaca ci tramanda il nome di Stefano Suriano. All’impresa di Lepanto non mancò nemmeno il conforto di religiosi calabresi.
Giovanni d’Austria, capo supremo della potente ed eterogenea flotta cristiana, prima dell’impresa si reca al San Martino di Napoli per ricevere dal monteleonese frate Giovanni Mazza una speciale benedizione. Questi era un certosino in odore di santità che, secondo quanto riferiscono alcuni storici, avrebbe avuto un’estasi durante la quale presentì la vittoria delle armi cristiane. Lo stesso don Giovanni, di ritorno da Lepanto, andrà a rendergli grazie. Come é da ricordare Gian Ferrante Bisballe, conte di Briatico, il calabrese che partecipò al gran consiglio della Lega tenutosi a Messina sull’ammiraglia di don Giovanni, presenti tutti i comandanti appartenenti alle più illustri casate del tempo: Barbarigo, Colonna, Della Rovere, Andre Doria, Farnese, Gonzaga, Orsini, Sforza, Spinola.
Anche in campo avverso è da sottolineare il ruolo di un altro calabrese, quel Gian Dionigi Galeni, diventato musulmano e meglio conosciuto come Luccialì. Comandante dell’ala sinistra della flotta turca, fu uno dei protagonisti dell’epico scontro. Dopo aver minacciato da vicino il Doria e lo stesso don Giovanni e aver catturato la capitana dei Cavalieri di Malta e la “Fiorenza” del papa, Luccialì riuscì a sganciarsi dalle acque insanguinate di Lepanto ed a portare in salvo a Costantinopoli un centinai di navi della flotta ottomana, ricevendo dal sultano la nomina a grande ammiraglio al posto di Alì Pascià morto in combattimento.
L’impresa di Lepanto ebbe notevoli risvolti calabresi, per il contributo di uomini e mezzi offerti da questa regione, forse la più colpita dalle incursioni saracene. La Calabria manifestò infatti il più vivo interesse per una spedizione diretta contro il suo secolare nemico. Spedizione che veniva organizzata lungo le sue coste, ove la flotta cristiana effettuò ripetute soste per riparare i legni, rifornirsi di viveri e di acqua e, soprattutto, imbarcare uomini accorsi numerosi attraverso un centro di reclutamento istituito a Tropea.
Si può affermare che gran parte dei corpi partecipanti all’impresa completarono i loro ranghi arruolando calabresi, senza contare poi gli uomini tratti dalle prigioni della Calabria per essere impiegati ai remi. Molti nobili calabresi partirono, inoltre, per Lepanto con navi proprie e loro soldati, come il citato Bisballe, che cadrà nello scontro navale combattendo proprio contro Luccialì. Come Gaspare Toraldo, che arruolò 1.200 uomini armando tre galee e fu il primo a mettere piede su una nave turca piantandovi lo stendardo. Come Cesare Galluppi, capitano dei corazzieri di Filippo II, imbarcatosi con numerosi gentiluomini di Tropea e 200 soldati. A Napoli s’imbarcò Scipione Cavallo, da Amantea, con una trentina di volontari arruolati a sue spese. Presente anche Camillo Comercio, da Francica, fratello del medico personale di Filippo II.
Tornando a Cecco Pisani, v’é da dire che, ricevuta la nomina a pilota , scese lungo il Tirreno, attraversò lo Stretto e perlustrò il mar Jonio tornando qualche giorno dopo per riferire che i turchi avevano danneggiato Corfù e che disponevano di 15o galee e di numerose altre navi, montate da migliaia di uomini ben armati ma, a quanto pare, carenti di artiglierie e con numerosi malati a bordo. L’8 settembre il mare di Messina vedeva schierate 203 galee, 6 galeazze, 50 fregate per un totale di 1.815 cannoni, 28.000 soldati, 13.000 marinai ed oltre 43.000 rematori: una flotta di potenza mai vista prima di allora, pronta ad affrontare la formazione certamente più imponente fino ad allora messa in mare dagli ottomani. Salito sull’ammiraglia, Cecco Pisani informò don Giovanni che le forze turche erano attestate a Lepanto.
Riti religiosi, fuochi d’artificio, balli e feste salutarono in tutta la Calabria il trionfo delle armi cristiane sui turchi. La vittoria di Lepanto rese, tra l’altro, la libertà a molti calabresi catturati anni prima dai corsari barbareschi e legati ai remi delle navi ottomane.
Purtroppo fu per la Lega un successo effimero. Infatti non erano ancora terminati i festeggiamenti e già le forze che, unite, avevano sconfitto la potenza ottomana, si azzuffavano per la divisione del bottino, ognuno attribuendosi il merito della vittoria. Il risultato fu che, appena un anno dopo Lepanto, le forze navali musulmane, al comando di Luccialì, ristabilivano il loro predominio nel Mediterraneo.
(riferimenti bibliografici: Ermanno Capani: “Vessilli calabresi sul mare di Lepanto”
Città Calabria aprile-maggio 1987- Rubettino Editore)