“Rinascita Scott 2”: i fratelli D’Amico restano in carcere, ecco tutte le accuse
Il gip di Vibo emette ordinanza di custodia cautelare e trasmette gli atti alla Dda di Catanzaro che dovrà ora avanzare una nuova richiesta al competente gip distrettuale
Restano in carcere i fratelli Antonio e Giuseppe D’Amico, di 57 e 49 anni, di Piscopio, arrestati nell’ambito dell’operazione “Rinascita Scott 2”. In carcere resta anche Giuseppe Ruccella, 40 anni, di Filogaso. Il gip del Tribunale di Vibo Valentia, Marina Russo, non ha convalidato il fermo di indiziato di delitto, emesso dalla Dda di Catanzaro, ma ha però emesso un’ordinanza di custodia cautelare in carcere ravvisando la gravità indiziaria. Al contempo, ravvisando un’incompetenza funzionale – in quanto le contestazioni sono aggravate dalle modalità mafiose, oltre alla contestazione dello stesso reato associativo di stampo mafioso – restituendo quindi gli atti alla Dda di Catanzaro che avrà ora venti giorni di tempo per presentare al competente gip distrettuale una richiesta di misura cautelare. Il gip di Vibo Valentia ha ravvisato per i tre arrestati “un grave ed allarmante quadro indiziario delineato dalla complessa ed amplissima mole di atti di indagine” che ingloba oltre tre anni di attività investigative, trattandosi di uno stralcio dell’operazione Rinascita Scott. Per il gip, “il tenore delle conversazioni intercettate attestano l’attuale e concreto pericolo che gli indagati, se rimessi in libertà, riprenderebbero le proprie attività criminali”. [Continua in basso]
Le accuse della Dda di Catanzaro
I fratelli D’Amico sono accusati del reato di associazione mafiosa (clan Mancuso). In particolare, Antonio D’Amico avrebbe coadiuvato il fratello Giuseppe “partecipando in prima persona a riunioni o colloqui riservati nel corso dei quali contribuiva a delineare la strategia dell’organizzazione, soprattutto nell’infiltrazione – con modalità illecite – dei settori imprenditoriali di interesse (commercializzazione di carburanti), ma anche nella gestione di specifiche attività estorsive, collaborando al mantenimento degli equilibri mafiosi nella spartizione degli appalti, potendo così accedere a notizie riservate relative alle dinamiche associative, orientando le proprie attività imprenditoriali (che gestiva insieme al fratello) in funzione della volontà espressa dalla famiglia Mancuso e condizionando, in funzione di tale volontà, anche l’attività di altri imprenditori contigui ad altre consorterie criminali.
Giuseppe D’Amico viene invece descritto come “imprenditore di riferimento dell’organizzazione (anche quale socio e legale rappresentante – sino dal 10 febbraio 2010 – della Dr Service S.r.l., nonché già socio della Dmt Petroli srl in fallimento) e formalmente affiliato (con la dote della “Santa”), già in passato legato – per ragioni di provenienza territoriale e familiare – alla cosca dei Piscopisani e più recentemente uomo di fiducia della cosca Mancuso di Limbadi e di Luigi Mancuso in particolare (con il quale era a stretto e diretto contatto)”. Giuseppe D’Amico, ad avviso della Dda di Catanzaro, sarebbe il titolare di attività finanziate anche con il denaro proveniente da varie consorterie ‘ndranghetistiche (Piscopisani, Mancuso, Alvaro, Piromalli) e viene “inserito in un collaudato sistema di controllo mafioso dei lavori pubblici e privati fondato sull’ imposizione sui cantieri di ditte compiacenti o contigue”, garantendo così al sodalizio, che gli consentiva di accedere ad importanti appalti e commesse, l’infiltrazione nei settori imprenditoriali di interesse, quali quello edilizio, quello dello smaltimento rifiuti, quello della commercializzazione di carburanti, “rappresentando gli interessi della cosca anche nella conduzione di trattative relative ad importanti affari in tali settori”. [Continua in basso]
Giuseppe D’Amico sarebbe stato “a disposizione dell’organizzazione ed in ottimi rapporti, oltre che con i Mancuso, anche con altre articolazioni della ‘ndrangheta come i Bonavota di Sant’Onofrio, i Fiarè di San Gregorio d’Ippona, gli Anello di Filadelfia e il clan dei Piscopisani, “i Piromalli nelle persone – rimarca la Dda – di Delfino Rocco e Cangemi Domenico, della cosca Italiano di Delianuova, nella persona di Italiano Giasone, della cosca Pelle di San Luca nella persona di Aguì Roberto”, che avrebbe agevolato erogando agli associati prestiti in denaro contante. Giuseppe D’Amico avrebbe poi sostenuto economicamente gli associati detenuti in carcere, assumendoli nelle proprie ditte, consentendogli l’utilizzo gratuito di carburante ed autovetture o effettuando altre regalie, sfruttando la propria libertà di movimento (derivante dal fatto di non avere rilevanti pregiudizi di polizia), per farsi latore di “imbasciate” tra gli appartenenti a differenti gruppi criminali. Giuseppe D’Amico avrebbe poi agito in modo specifico in nome e per conto della cosca Mancuso di Limbadi, eseguendo le direttive dei vertici della stessa, in particolare di Luigi Mancuso, Pasquale Gallone, Silvana Mancuso, con i quali era a diretto contatto, anche veicolando imbasciate e partecipando in prima persona a riunioni o colloqui riservati nel corso dei quali contribuiva a delineare la strategia dell’organizzazione.
Giuseppe D’Amico viene poi accusato di aver collaborato pure con il genero Francesco D’Angelo, detto “Ciccio Ammaculata”, quest’ultimo indicato quale capo del vecchio locale di ‘ndrangheta di Piscopio.
Gli altri reati contestati ai D’Amico e Ruccella
Altro capo di imputazione contestato a Giuseppe D’Amico fa riferimento ad un’estorsione – aggravata dal metodo mafioso – ai danni dell’imprenditore Pata della Cooper Poro Edile per i lavori del complesso Parrocchiale di Pizzo “Risurrezione di Gesù” (commissionato dalla Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, per un importo complessivo di 4.579.654,22 euro). Estorsione contestata in concorso con Luigi Mancuso, Gregorio Giofrè, Pasquale Gallone, Giuseppe Barbieri, Francescantonio Anello, Daniele Prestanicola, Francescantonio Tedesco e Filippo Fiarè. In questo caso, l’imprenditore Giuseppe Ruccella avrebbe fornito una parte del cemento con la sua impresa Prev Calcestruzzi che sarebbe stata imposta da Giuseppe Barbieri (già sotto processo per Rinascita-Scott) per il clan Bonavota di Sant’Onofrio. [Continua in basso]
Il reato di riciclaggio è poi contestato ai due fratelli D’Amico ed a Giuseppe Terranova “previo accordo” con il boss Francesco Mancuso, alias “Tabacco”, e Rosamaria Pugliese attraverso la Lp Carburanti. I D’Amico avrebbero poi messo a disposizione del sodalizio il proprio deposito commerciale, ove fare temporaneamente transitare il prodotto proveniente dal nord Italia ed indirizzato alla Sicilia, stabilendo il grado e la percentuale delle miscelazioni degli oli lubrificanti con il carburante genuino, provvedendovi, in taluni casi, direttamente essi stessi. Per tale tipologia di reato i capi d’imputazione sono diversi.
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