‘Ndrangheta: in Cassazione il “vuoto probatorio” del processo “Black money” contro i Mancuso
La Suprema Corte fissa l’udienza per esaminare i ricorsi della pubblica accusa e delle difese. In primo grado a Vibo ed in Appello a Catanzaro è franata totalmente l'impalcatura accusatoria sul reato associativo. Ecco le articolate motivazioni dei giudici d’appello
Approda in Cassazione il troncone principale dell’operazione antimafia “Black money”, scattata nel marzo 2013 ad opera della Dda di Catanzaro – all’epoca diretta dal procuratore Giuseppe Borrelli – contro il clan Mancuso. Il 6 maggio prossimo la seconda sezione penale della Suprema Corte si occuperà infatti delle posizioni di: Antonio Mancuso, 83 anni, Giovanni Mancuso, 80 anni, Pantaleone Mancuso, 60 anni, alias “Scarpuni”, tutti di Limbadi, Agostino Papaianni, 70 anni, di Coccorino di Joppolo, Gaetano Muscia, 57 anni, di Tropea, Antonio Prestia, 53 anni, di San Calogero.
Il ricorso in Cassazione nei confronti dei tre Mancuso, oltre che dalle difese, è stato presentato anche dalla Procura generale di Catanzaro alla quale non sono andate giù le motivazioni della Corte d’Appello che il 12 novembre del 2019 – al pari della sentenza di primo grado del Tribunale collegiale di Vibo Valentia – hanno ribadito il totale vuoto probatorio dell’accusa in ordine al reato di associazione mafiosa. [Continua in basso]
Pertanto, Antonio Mancuso in appello è stato condannato a 5 anni per il solo reato di estorsione (a fronte di una richiesta di pena in primo grado avanzata dal pm Marisa Manzini pari a 27 anni di reclusione ed in appello dal pm Annamaria Frustaci pari a 25 anni), Giovanni Mancuso a 9 anni per il reato di usura (il pm Manzini in primo grado aveva chiesto per lui 29 anni di reclusione, così come in appello il pm Annamaria Frustaci), mentre Pantaleone Mancuso è stato assolto (così come in primo grado laddove il pm Manzini aveva chiesto 26 anni e 6 mesi di carcere ed il pm Frustaci in appello 18 anni). Le altre condanne in appello che ora arrivano al vaglio della Cassazione sono state: 7 anni e 8 mesi per Agostino Papaianni (l’accusa in appello aveva chiesto per lui 23 anni e 8 mesi); 7 anni Gaetano Muscia (così come la sentenza in primo grado), 5 anni e 6 mesi Antonio Prestia (così come in primo grado).
In primo grado la pubblica accusa dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia (Vicenza Papagno presidente, giudici a latere Pia Sordetti e Giovanna Taricco) era stata sostenuta dal pm Marisa Manzini che aveva coordinato l’intera operazione antimafia e che, al termine della requisitoria, aveva chiesto condanne complessive pari a 229 anni di carcere ottenendone in totale 47. In appello l’accusa è stata sostenuta invece dal pm della Dda di Catanzaro, Annamaria Frustaci, applicata per tale processo alla Procura generale.
Antonio Mancuso è difeso dall’avvocato Giuseppe Di Renzo, Giovanni Mancuso dagli avvocati Giuseppe Di Renzo e Armando Veneto, Pantaleone Mancuso dagli avvocati Francesco Calabrese e Francesco Sabatino, Agostino Papaianni dagli avvocati Michelangelo Miceli e Salvatore Staiano, Gaetano Muscia dall’avvocato Giovanni Vecchio, Antonio Prestia dall’avvocato Sabatino. [Continua in basso]
Le ragioni dei giudici di merito
I giudici di merito nel mandare assolti gli imputati dal reato di associazione mafiosa hanno parlato nelle motivazioni della sentenza di indagini lacunose con zero prove in ordine al reato associativo. Per tutti gli imputati ai “fini della contestazione associativa le vicende trattate non hanno fornito alcun contributo – hanno scritto i giudici – in ordine alla ricostruzione della compagine e dell’operatività della stessa”. La pubblica accusa non avrebbe tenuto in alcun conto, ad avviso dei giudici di primo e secondo grado, degli insegnamenti della giurisprudenza della Cassazione in tema di associazione mafiosa.
La genesi dell’inchiesta
Era stato il colonnello Giovanni Sozzo – all’epoca alla guida del Ros di Catanzaro con il grado di maggiore – a spiegare la genesi dell’inchiesta che, come ricordato dai giudici nelle motivazioni della sentenza, era partita con la sottoposizione ad intercettazione del boss Luigi Mancuso, all’epoca detenuto per scontare una lunga pena definitiva per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti. “Tuttavia – ha ricordato il Tribunale di Vibo nelle motivazioni della sentenza – da tale attività non emersero elementi utili se non un laconico commento sulla nascita del nipote, figlio di Pantaleone Scarpuni, alla fine del 2009, significativo del distacco del detenuto rispetto alla notizia, anche perché, come rappresentato dal colonnello, lo stesso Mancuso riceveva le visite delle sole donne della famiglia, vale a dire la moglie e le figlie”. [Continua in basso]
Dal giugno 2009 all’aprile 2010 sono stati così predisposti dei servizi di osservazione ed intercettazione nei confronti di Pantaleone Mancuso, alias “Scarpuni” e di Nunzio Manuel Callà. Nel marzo 2011 veniva poi sottoposto ad intercettazione nel suo casolare di campagna a Limbadi, il boss Pantaleone Mancuso, alias “Vetrinetta”, scarcerato nel 2010 dopo aver scontato una condanna definitiva per associazione mafiosa nel processo “Dinasty”.
Le motivazioni dei giudici di secondo grado
In Appello – presidente Anna Maria Saullo, giudici consiglieri Caterina Capitò e Angelina Silvestri – oltre a condividere le argomentazioni dei giudici di primo grado in ordine al “totale vuoto probatorio in relazione ai contatti tra gli imputati non colmato dai controlli e dalle intercettazioni dei soggetti vicini agli appartenenti alla cosca” ha offerto una vera e propria lezione di diritto contenuta in 427 pagine di motivazioni.
Si legge infatti nelle motivazioni dei giudici di secondo grado: “L’assoluzione dall’accusa di associazione mafiosa si fonda non sul giudizio di inattendibilità dei collaboratori di giustizia, bensì sull’assenza di precisi elementi di prova, capaci di attribuire ai singoli imputati assolti dal reato associativo un ruolo attivo, non essendo documentati contatti con altri sodali, né risultando un loro coinvolgimento in altri traffici illeciti, per difetto di prove di condotte idonee a configurare un contributo sull’esistenza del sodalizio di ‘ndrangheta come contestato nell’imputazione”.
Il fatto poi che due coimputati siano stati condannati per associazione mafiosa nell’ambito della medesima operazione, ma con il giudizio abbreviato, “non vincola il giudice chiamato a rivalutare quel fatto in relazione alla posizione di altri soggetti imputati quali concorrenti nel medesimo reato ma per i quali si è proceduto separatamente, a cagione dell’autonomia dei singoli rapporti processuali concernenti ciascun imputato, con la conseguente possibilità di una diversa valutazione dello stesso fatto da parte di più giudici”. Gli atti investigativi utilizzati dal gup nel giudizio abbreviato per arrivare ad emettere sentenza di condanna per il reato associativo per un imputato sono in sostanza ben diversi dal “materiale conoscitivo, ampliato e composito, consegnati ai giudici del dibattimento”. Nel giudizio abbreviato, quindi, gli atti utilizzati non sono stati “vagliati dalla verifica formata in contradditorio” così come nel dibattimento di primo e secondo grado del giudizio ordinario dove le prove orali si sono rivelate “contradditorie e contraddette dai testi a discarico messi a confronto con l’istruttoria dibattimentale, articolata e complessa, che ha evidenziato – rimarca la Corte d’Appello – esiti incerti e contrastanti non contestati neanche dalla pubblica accusa che, avverso tali esiti assolutori non ha interposto gravame, pendendo atto del risultato processuale incerto”. Anche per i reati fine contestati nel giudizio abbreviato, in molti casi il giudice ha escluso le aggravanti mafiose “sotto il profilo dell’agevolazione del sodalizio mafioso”, sul rilievo che “non sono stati individuati i collegamenti specifici tra il singolo episodio di estorsione ed il sodalizio criminale”. Tale dato “valutativo – fanno notare i giudici d’appello – non è di poco conto se si considera che è proprio questo il vulnus del materiale probatorio sottolineato dal Tribunale di Vibo Valentia nella sentenza impugnata dalla pubblica accusa, che costituisce, dunque, momento valutativo comune dei due giudizi”.
Tutta la documentazione offerta dalla pubblica accusa “passata analiticamente in rassegna”, per la Corte d’Appello di Catanzaro “non ha aggiunto elementi ulteriori di novità tali da alterare la consistenza del materiale probatorio, essendo il contenuto delle numerosissime senza prodotte di nessuna incidenza e duplicative di elementi già acquisiti al giudizio, attraverso le prove orali, ovvero di nessuna pertinenza”.
Le assoluzioni già definitive
Da ricordare che nel troncone con rito abbreviato già in primo grado erano stati assolti gli imprenditori Antonio Mamone e Bruno Marano per i quali il pm Marisa Manzini aveva chiesto in primo grado 5 anni di carcere a testa per associazione mafiosa. Tali assoluzioni non erano state appellate dal pubblico ministero ed erano quindi divenute definitive al pari di quelle di Gabriele Bombai e Salvatore Accorinti, di Tropea (5 anni a testa la richiesta del pm). Il pm Manzini aveva invece appellato le assoluzioni totali di Antonio Maccarone (genero del boss Pantaleone Mancuso, detto “Vetrinetta”) per il quale in primo grado aveva chiesto 5 anni e 6 mesi, dell’imprenditore Domenico De Lorenzo (5 anni la richiesta del pm) e di Nunzio Manuel Calla’ (5 anni era stata la richiesta del pm), ma anche in Corte d’Appello i verdetti assolutori sono stati poi confermati. Sempre in appello si erano registrate infine le assoluzioni del commercialista di Catanzaro Giuseppe Ierace, di Giuseppe Raguseo (genero del boss Cosmo Mancuso) e Mario De Rito (5 anni e 4 mesi in primo grado). Per tutte le assoluzioni degli abbreviati non vi è stato alcun ricorso del pm in Cassazione e quindi i proscioglimenti sono divenuti definitivi.
Nel processo in ordinario non sono state invece appellate in Cassazione le assoluzioni di: Leonardo Cuppari, Giuseppe Mancuso (cl. ’77), Antonino Castagna, Damian Fialek.
Pantaleone Mancuso (Scarpuni) si trova attualmente detenuto poichè condannato in via definitiva all’ergastolo nel processo “Gringia” per l’omicidio di Francesco Scrugli e i tentati omicidi di Raffaele Moscato e Rosario Battaglia (fatti di sangue avvenuti nel marzo 2012 a Vibo Marina), mentre Antonio Mancuso è sotto processo dinanzi al Tribunale di Vibo per l’estorsione all’imprenditore Carmine Zappia di Nicotera. Gaetano Muscia è invece sotto processo, sempre a Vibo, per l’operazione Ossessione contro il narcotraffico internazionale. Agostino Papaianni è invece latitante dal 19 dicembre 2019 per Rinascita-Scott. Antonio e Pantaleone Mancuso per il reato di associazione mafiosa sono stati già condananti in via definitiva nei processi nati dall’operazione “Dinasty-Affari di famiglia”.
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