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Rinascita-Scott: in Corte d’Assise a Catanzaro cinque omicidi avvenuti nel Vibonese

Imputati rinviati a giudizio per rispondere di lupare bianche ed agguati decisi dai Bonavota contro i Cracolici, dai clan Accorinti e Razionale contro i Soriano e dalla cosca Lo Bianco per punire un affiliato ritenuto omosessuale

Rinascita-Scott: in Corte d’Assise a Catanzaro cinque omicidi avvenuti nel Vibonese
La Corte d'Appello di Catanzaro
Alfredo Cracolici

Prova a far luce anche su cinque fatti di sangue, l’inchiesta Rinascita-Scott della Dda di Catanzaro. Il gup distrettuale ha infatti ieri disposto il rinvio a giudizio di alcuni imputati anche dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro per rispondere degli omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano avvenuti il 9 febbraio 2002 a Vallelonga, della scomparsa per lupara bianca di Filippo Gangitano, sparito da Vibo Valentia nel gennaio 2002, e delle “lupare bianche” ai danni di Roberto Soriano e Antonio Lo Giudice, uccisi il 6 agosto 1996. Fatti di sangue diversi ma che verranno trattati in un unico processo che si aprirà il 10 febbraio prossimo in Assise.

L’OMICIDIO DI ALFREDO CRACOLICI

Per la prima volta in sede giudiziaria vengono quindi contestati gli omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano. Quello di Raffaele Cracolici (maggio 2004 a Pizzo Calabro) era infatti già stato contestato con le operazioni “Uova del drago” e “Conquista”. Secondo l’accusa, mandante del fatto di sangue sarebbe stato Domenico Bonavota, 41 anni, di Sant’Onofrio (la cui posizione ieri è stata stralciata dal gup per problemi tecnici e verrà trattata il 16 dicembre), mentre Antonio Ierullo, 51 anni, di Vallelonga (che è stato ieri rinviato a giudizio), avrebbe fornito appoggio logistico durante le fasi propedeutiche al duplice omicidio e sarebbe stato poi l’autore materiale della sparatoria che ha cagionato la morte di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano contro i quali sono state esplose raffiche di fucile mitragliatore kalashnikov e colpi di fucile calibro 12, tanto da lasciare sul posto dell’agguato – in contrada Muraglie di Vallelonga – i bossoli di oltre venti colpi. A recarsi insieme a Ierullo a fare un sopralluogo a Vallelonga ci sarebbe stato anche un soggetto di Sant’Onofrio rimasto al momento ignoto.

A permettere la ricostruzione del duplice omicidio, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Andrea Mantella e Francesco Costantino, ma anche le dichiarazioni rese a suo tempo da Bruno Di Leo di Sant’Onofrio. Scrive infatti il gip nell’ordinanza di custodia cautelare: “Bruno Di Leo, appartenente al clan Bonavota, zio del defunto Domenico Di Leo – ucciso per mano degli stessi Bonavota, fatto per cui è intervenuta sentenza nell’ambito del processo “Conquista” – nel corso di un colloquio informale riferì al maggiore Luigi Grasso, all’epoca dei fatti comandante del Reparto Operativo Carabinieri di Vibo Valentia, che Alfredo e Raffaele Cracolici erano stati assassinati per volere dei vertici della cosca Bonavota a causa dei numerosi furti (anche ai danni della madre di Domenico Cugliari, detto “Micu i Mela”, zio dei Bonavota) da loro perpetrati in danno di soggetti ritenuti “intoccabili”. Inoltre – rimarca ancora il giudice – precisava che Raffaele Cracolici era stato ucciso anche perché era solito denigrare i killer del fratello, affermando che costoro non sapevano neanche sparare, con riferimento al fatto che Alfredo Cracolici, nonostante i numerosi colpi esplosi, fu attinto effettivamente da un solo proiettile nella zona inguinale”.

Fondamentali per la ricostruzione del duplice omicidio anche le intercettazioni ambientali. Quanto alla partecipazione di Domenico Bonavota – scrive ancora il gip ­– all’omicidio di Alfredo Cracolici valga il riferimento puntuale che Luca Belsito, nel conversare sotto il gazebo della Esso (zona sottoposta a monitoraggio ambientale), fa espressamente a Domenico Bonavota quale autore dell’agguato ad Alfredo Cracolici.

La chiusura del cerchio sulla riconducibilità dell’omicidio a Domenico Bonavota e Antonio Ierullo si ricava anche dalle conversazioni captate a bordo della macchina in uso ad Antonio Ierullo in quel momento storico, dalle quali si evince senza ombra di dubbio che Ierullo stesse monitorando la zona di San Nicola da Crissa frequentata – rimarca il gip – da Alfredo Cracolici (che lì aveva l’amante) e dove, di fatto, si è consumato l’omicidio, per come riferito da Domenico Bonavota ad Andrea Mantella. Nell’agguato oltre a Cracolici ha perso la vita anche Giovanni Furlano, il quale ultimo si trovava vicino alla vittima designata”.

GLI OMICIDI DI ROBERTO SORIANO E ANTONIO LO GIUDICE

Il 6 agosto 1996 l’omicidio di Antonio Lo Giudice e la contestuale scomparsa per lupara bianca di Roberto Soriano, che avevano trascorso insieme le loro ultime ore. Due delitti svelati grazie alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia, Andrea Mantella. «In quel periodo rubarono la macchina alla compagna di Antonio Lo Giudice, uomo d’onore di Piscopio, che faceva l’infermiera all’ospizio di Rione Carmine».

Lo Giudice, visto che specializzati nei furti d’auto, all’epoca, erano i Soriano, ai Soriano si rivolse e, in particolare a Roberto. Ma Roberto Soriano di quella macchina non sapeva nulla e, così, si offrì – spiega sempre Mantella – di accompagnare Lo Giudice dal boss degli Accorinti di Zungri, Peppone, che nel frattempo però era stato informato dallo stesso Razionale che Giuseppe Mancuso lo voleva eliminare e che era stato proprio Roberto Soriano a sparargli l’anno precedente (il 29 settembre 1995) su mandato del boss di Limbadi. La vendetta di Giuseppe Mancuso nei confronti di Saverio Razionale sarebbe scattata poiché il boss di Limbadi aveva chiesto al boss Razionale di aiutarlo ad eliminare Giuseppe Accorinti. Razionale aveva però avvertito lo stesso boss di Zungri del progetto omicidiario.

Il TRANELLO A LO GIUDICE E SORIANO

Dal verbale di Andrea Mantella: «Peppone tese un tranello ai due, Lo Giudice e Soriano, dicendo loro di tornare dopo un paio di giorni perché intanto avrebbe cercato di trovare la macchina rubata. Invece di fare ciò avvisò Saverio Razionale». Fu così che Lo Giudice e Soriano, due giorni dopo, in un casolare, si sarebbero trovati dinanzi ad Accorinti e Razionalee altri uomini. E qui inizia una narrazione raccapricciante: «Giunti al casolare, fu detto subito a Lo Giudice di andarsene perché la cosa non lo riguardava ma, per come mi dissero sia Razionale al carcere di Paola che Accorinti al carcere di Cosenza, lui non se ne volle andare, dicendo che Soriano era un bravo ragazzo».

LO GIUDICE NON ABBANDONO’ L’AMICO

Così Andrea Mantella spiega che Antonio Lo Giudice fu ucciso perché non volle abbandonare l’amico al suo destino: «Non mi è stato detto se Antonio Lo Giudice è stato sparato o strangolato, ma so che è stato ucciso sulla sedia e Accorinti mi disse che era morto con il sorriso sulle labbra». Fu una morte rapida, diversamente da quella di Roberto Soriano. Apprese, il collaboratore di giustizia, che prima di essere ucciso fu torturato usando una tenaglia di quelle per tagliare le unghie alle vacche». Lo interrogarono affinché confessasse la sua responsabilità per gli agguati orditi contro gli stessi Accorinti e Razionale, su ordine di Peppe Mancuso: «Alla fine confessò… E mentre lo torturavano li pregava di ucciderlo». Per tale fatto di sangue sono stati rinviati a giudizio il boss di Zungri, Giuseppe Accorinti, e Saverio Razionale.

LA SCOMPARSA DA VIBO DI GANGITANO, ALIAS “U PICCIOTTU”

Quando il 27 gennaio 2002 fu denunciata la scomparsa di Filippo Gangitano, si pensò ad un regolamento di conti in seno alla criminalità organizzata, che magari poteva aver tolto preventivamente di mezzo uno che si riteneva potesse pentirsi. Quel caso di lupara bianca finì pertanto solo con l’aggiornare le statistiche degli scomparsi in una provincia divenuta sin dagli anni ‘80 un buco nero. Quasi diciotto anni dopo, invece, è Rinascita-Scott a fare luce ed a mandare a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise: Vincenzo Barba, alias “il Musichiere”, Filippo Catania, Paolino Lo Bianco e Andrea Mantella, tutti di Vibo Valentia. Fra i mandanti del fatto di sangue, anche il boss Carmelo Lo Bianco, alias “Piccinni”, deceduto nel 2004 in carcere.

UCCISO PERCHE’ GAY

I vertici del clan Lo Bianco – ha fatto mettere a verbale Andrea Mantella – decisero che Gangitano andava eliminato perché «omosessuale». Che fosse vero o meno, poco importava. «La città era piena» e ciò divenne una sentenza senza appello, perché la ‘ndrangheta aveva delle regole e perché bisognava «dare conto a San Luca», che non accettava gay tra gli affiliati. Di vero c’era che Filippo Gangitano, allora trentacinquenne, aveva un amico più giovane dal quale non si separava quasi mai. E quel legame che appariva fortissimo, quasi simbiotico, finì con l’alimentare le voci, voci che – riscontrate o meno che fossero – si tradussero in una condanna a morte.

Andrea Mantella ha sottolineato agli inquirenti di aver provato a salvare la vita del cugino, ma i suoi sforzi furono inutili e così egli stesso dovette farsi carico di attirarlo in una trappola, coinvolgendo con l’inganno pure i suoi fratelli, ignari di quale fosse il piano, per consegnarlo al fucile di colui il quale l’avrebbe ammazzato, Francesco Scrugli, a sua volta assassinato, dieci anni dopo, nella guerra di mafia tra i Patania di Stefanaconi ed il clan dei Piscopisani.

L’ex killer Andrea Mantella ha spiegato che Gangitano fu atteso da Scrugli, nascosto dietro una balla di fieno, nella masseria. Sparò con un fucile calibro 12 e lo colpì alla testa. Esanime, venne messo in un sacco, caricato su una carriola e portato dall’altra parte della strada, dove fu seppellito. Ma Mantella aggiunge un altro particolare agghiacciante. Randagi e animali selvatici, avvertendo l’odore del cadavere, nascosto sotto pochi centimetri di terra, scavarono e, dopo qualche giorno, fecero affiorare alcuni resti, facendone scempio.

IL CADAVERE MAI PIU’ RITROVATO

Così il collaboratore di giustizia diede ordine di bruciare il corpo assieme ad alcuni vecchi pneumatici e di sotterrare nuovamente ciò che restava. Quei resti straziati sono ancora lì seppelliti, mai più venuti alla luce, nonostante gli interventi di costruzione della Tangenziale Est di Vibo a ridosso dalla masseria di Mantella dove sarebbe stato sepolto il cugino Filippo Gangitano, ucciso “perché gay”.

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