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Processo “Purgatorio” a Vibo: iniziata la requisitoria del pm

Per oltre sei ore il pm della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci ha spiegato gli elementi a sostegno dell’impalcatura accusatoria nel processo con imputati l’avvocato Galati e gli ex vertici della Squadra Mobile Lento e Rodonò

Processo “Purgatorio” a Vibo: iniziata la requisitoria del pm

Una requisitoria andata avanti per oltre sei ore, che ha ripercorso molti dei “punti cardine” dell’impianto accusatorio e che proseguirà il 30 novembre prossimo. Sul banco degli imputati l’avvocato del foro di Vibo Valentia, Antonio Galati (accusato di associazione mafiosa), e gli ex vertici della Squadra Mobile vibonese Maurizio Lento ed Emanuele Rodonò (accusati di concorso esterno in associazione mafiosa).

A dettagliare il Tribunale collegiale di Vibo Valentia presieduto da Alberto Filardo, con a latere i giudici Raffaella Sorrentino e Graziamaria Monaco, sulla genesi, lo sviluppo e le indagini che hanno portato al processo nato dall’operazione denominata “Purgatorio”, è stata il pm della Dda di Catanzaro Annamaria Frustaci che è subentrata nell’accusa al pm Camillo Falvo, che a sua volta aveva ereditato l’inchiesta firmata dall’ex procuratore aggiunto della Dda, Giuseppe Borrelli, e dall’allora pm per l’area vibonese Simona Rossi.

“Siamo dinanzi ad un’operazione – ha spiegato in aula il pm Frustaci – che lascerà un segno indelebile nella storia di questo circondario perché ha interessato persone, un avvocato e due poliziotti, che hanno preso parte all’amministrazione della giustizia. Un processo che ha toccato la posizione di giudici e pubblici ministeri in un distretto difficile come quello vibonese. Non è retorica se dico che è un processo che ha riguardato il legame che deve esserci fra i cittadini e chi amministra la giustizia”.

Quindi le spiegazioni sulla genesi dell’inchiesta che ha portato al processo Purgatorio, stralcio dell’indagine che ha poi condotto al processo “Black money” contro il clan Mancuso, mentre le posizioni di tre magistrati sono state archiviate a Salerno, una definita in primo grado con una condanna per rivelazione d’atti d’ufficio (il pm Paolo Petrolo in servizio alla Procura di Catanzaro) ed una pendente dinanzi al Tribunale di Napoli (quella del giudice Cristina De Luca).

Il pm è poi passata ad elencare parte degli elementi di prova che, a suo avviso, avrebbero dovuto indurre il Tribunale di Vibo (in diversa composizione) a condannare per associazione mafiosa gli esponenti della famiglia Mancuso imputati del processo Black money, citando il “paradosso delle condanne registrate da D’Aloi e Raguseo” per associazione mafiosa nel processo Black money celebrato con rito abbreviato (anche se in realtà Giuseppe Raguseo, genero del boss Cosmo Michele Mancuso, in appello è stato assolto).

Nel ripercorrere alcune intercettazioni ambientali e telefoniche contenute nell’inchiesta Black money che proverebbero l’esistenza e l’operatività attuale della cosca Mancuso, il pm ha poi iniziato a delineare la figura del defunto boss di Limbadi Pantaleone Mancuso (cl. ’47), detto “Vetrinetta”, intercettato nel suo casolare di campagna e cliente dell’avvocato Antonio Galati. Un boss che – rispolverando alcune intercettazioni in carcere fra Diego Mancuso ed il nipote Domenico – contenute nell’operazione “Dinasty” avrebbe goduto negli anni di una sorta di impunità per via dei suoi “legami con le forze dell’ordine e la massoneria”, anche se sul punto vi è da dire che le motivazioni della sentenza del Tribunale di Vibo relativa all’operazione “Dinasty” (ormai definitiva) hanno rimarcato che sull’asserita partecipazione di Pantaleone Mancuso “a logge massoniche occulte non vi sono né riscontri e né conferme”.

Chiedendo al Collegio la rivisitazione di alcuni elementi contenuti nelle intercettazioni e che proverebbero l’operatività attuale del clan Mancuso, il pm è poi passata a tratteggiare quello che ha definito come il “modus operandi dell’avvocato Antonio Galati”. Dal processo “Dinasty-Do ut Des” celebrato a Salerno e che l’ha visto assolto in primo e secondo grado (sentenza definitiva), mentre si è registrata la condanna del giudice Patrizia Pasquin, sino al processo “Golden house” conclusosi con assoluzioni in primo grado a Vibo e con la rinuncia all’appello (pur presentato) da parte dell’accusa a causa della fissazione del processo di secondo grado quando ormai i reati erano caduti in prescrizione. Processo Golden house in cui l’avvocato Galati assisteva uno degli imputati e processo di cui il legale ha parlato in alcune conversazioni con l’allora presidente del Collegio di quel dibattimento, il giudice Cristina De Luca, sua amica. Lo stesso giudice De Luca che, sulla scorta di alcune “voci” fattegli pervenire dall’allora presidente del Tribunale di Vibo, Roberto Luccisano, a sua volta informato dal giudice a latere dello stesso processo, Alessandro Piscitelli, ha poi presentato richiesta di astensione dal dibattimento. Una richiesta però respinta dal presidente Luccisano e che, secondo il pm Frustaci, nella forma in cui era stata presentata, “non poteva che essere respinta”.

Molte le vicende trattate nella requisitoria ed anche la non corrispondenza fra alcune trascrizioni delle intercettazioni operate dai carabinieri del Ros con quelle operate dai periti. Da qui anche l’ascolto in aula di alcuni passi dei dialoghi intercettati ed anche la spiegazione sul significato di alcune parole captate dalle microspie.

Un “capitolo” della requisitoria è stato poi dedicato alla presunta rivelazione del segreto d’ufficio che sarebbe stata fatta nel corso di una conversazione telefonica dall’ex vice capo della Squadra Mobile di Bologna, Emanuele Rodonò, in favore dell’avvocato Antonio Galati. Si tratta in particolare di tre arresti di tre soggetti di Vibo (Pierluigi Sorrentino, Caterina Cutrullà e Sasha Fortuna, fratello di Davide Fortuna ucciso in spiaggia a Vibo Marina nel luglio 2012) operati congiuntamente dalla Squadra Mobile di Bologna e Vibo.

Nella requisitoria ha trovato spazio, infine, anche quella che il colonnello del Ros, Giovanni Sozzo, nel corso della sua deposizione in aula il 22 maggio 2015 ha definito come “guerra” all’interno del Tribunale di Vibo  ovvero la divisione fra due opposti gruppi di magistrati (il teste aveva collocato da un lato i giudici Giancarlo Bianchi, Cristina De Luca e Manuela Gallo, dall’altra parte i giudici Alessandro Piscitelli, Fabio Regolo, il procuratore Mario Spagnuolo e l’ex presidente del Tribunale Roberto Lucisano). Una “guerra” poi non confermata in aula dal giudice Fabio Regolo nel corso della sua deposizione del 2 ottobre 2015 che ha invece parlato soltanto di “fisiologici contrasti o diversità di vedute fra magistrati nell’espletamento delle funzioni”. Vicenda, quella del giudice Regolo, anche al centro di un presunto tentativo di delegittimazione del suo operato e che, per l’accusa, sarebbe riconducibile all’avvocato Galati. Vicenda emersa per via di due incarichi dati all’epoca dal Tribunale fallimentare di Vibo (giudice estensore lo stesso Fabio Regolo) ad uno studio di commercialisti di Milano dove lavorava il fratello del giudice Regolo, ovvero il dott. Paolo Regolo. Una vicenda, quest’ultima, anche al centro di una fantomatica perquisizione al Tribunale di Vibo Valentia (mai avvenuta) rilanciata da alcuni giornali on line nel dicembre 2012.

La requisitoria del pm riprenderà il 30 novembre.

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