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Guanti bianchi per l’avvocato con lo zio in Cassazione. «Mancuso voleva aggiustare il processo»

ESCLUSIVO (AUDIO VIDEO) La clamorosa assoluzione del boss Scarpuni dopo due condanne. Il naufragio del procedimento nato dalla prima denuncia di un imprenditore contro i Mancuso. Le rivelazioni di Mantella a Dda di Catanzaro, Gico e Polizia federale svizzera

Guanti bianchi per l’avvocato con lo zio in Cassazione. «Mancuso voleva aggiustare il processo»
Vincenzo Ceravolo

Fu un processo dal significato enorme. Per la prima volta un imprenditore denunciava un boss dei Mancuso. Primi anni 2000, quando ancora Dinasty – Affari di famiglia, la maxioperazione che diede la stura al procedimento che al suo esito per la prima volta riconobbe l’esistenza del gigante ‘ndranghetista di Limbadi, non era scattata. L’imprenditore era Vincenzo Ceravolo, patron di un gruppo affermato nel comparto ittico, che esausto dopo anni di umiliazioni ed attentati, bussò alla Squadra mobile di Vibo Valentia e denunciò Pantaleone Mancuso alias Scarpuni e due suoi sodali. Finirono in arresto nel blitz che la Direzione distrettuale antimafia chiamò Breccia. [Continua]

Da Enzo Ceravolo a Pino Grasso

Pantaleone Mancuso (Scarpuni)

E poteva essere davvero una Breccia. Nel clan che – benché allora non riconosciuto con un giudicato definitivo – nel marzo del 2003 la Commissione parlamentare antimafia indicò tra i più potenti d’Europa. Nella società civile di quella che al tempo era la provincia più povera nella regione più povera d’Italia. Breccia divenne anche un processo mediatico: gli organi di informazione locali, al solito, a far da traino, quella volta però non lasciati soli dalla stampa nazionale. Ceravolo si presentò in aula, ed in un clima di lacerante tensione, alla presenza dei suoi presunti taglieggiatori, reiterò la sua drammatica denuncia. Emerse, più avanti, che fu perfino estorta una deposizione per delegittimare la parte offesa. Il falso teste, alla fine, crollò e finì anch’egli sotto scorta, esattamente come Ceravolo. Si chiamava Giuseppe Grasso.

Dalle condanne all’assoluzione

Nazzareno Colace

Mancuso ed il suo luogotenente su Porto Salvo, Nazzareno Colace, furono condannati in primo grado, a 12 e a 9 anni. In appello la condanna a Mancuso fu aggravata: 14 anni e 4 mesi. Rideterminata e ridotta per Colace: 4 anni e 6 mesi. Ci fu la Cassazione: annullamento della sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, per un processo i cui reati erano ormai prossimi alla prescrizione. Alla luce dei paletti posti dalla Suprema Corte, entrambi assolti, come richiesto dalla stessa Procura generale. Assoluzione logicamente non impugnata e, quindi, divenuta definitiva.

Un’ombra sul processo?

Oggi, su quel processo – lunghissimo, estenuante, così importante sul piano storico e ormai dimenticato, alla luce del tempo trascorso e degli eventi – un collaboratore di giustizia di primissimo livello innesca più di un interrogativo. Lo fa attraverso un racconto che, premettiamo, al momento non ha riscontro, ma è senz’altro suggestivo di assoluto interesse pubblico.

Andrea Mantella

È il 7 novembre 2018. A Roma, negli uffici del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza, i pm della Dda di Catanzaro e i finanzieri del Gico, interrogano Andrea Mantella, ex killer ed ex boss emergente di Vibo Valentia. Partecipano anche i magistrati e gli investigatori della Polizia giudiziaria federale svizzera. Il verbale viene acquisito nel contesto dell’indagine Imponimento, che farà luce sul potere e sugli affari transnazionali del boss di Filadelfia Rocco Anello. Tra le figure sulle quali indagano c’è quella di Vincenzo Renda (già coinvolto nella maxioperazione Rinascita Scott, nel blitz Imponimento finirà agli arresti domiciliari, misura poi annullata dal Tribunale del Riesame).

Coi «guanti bianchi»

Luigi Mancuso

Racconta che conobbe Renda quando stava per aprire l’Eurospin di Vibo Valentia. Mantella sarebbe stato chiamato da Gianfranco Ferrante, patron del Cin Cin Bar legato a doppio filo con il capo dei capi della ‘ndrangheta vibonese, Luigi Mancuso, che in quell’occasione si faceva latore del messaggio di un altro boss dei Mancuso, Pantaleone alias Scarpuni. Quest’ultimo, in pratica, chiedeva che l’avvocato Renda fosse trattato «con i guanti bianchi» in quanto aveva «uno zio, qui a Roma, in Cassazione… Credo che era un relatore, insomma uno importante nella Cassazione». A Scarpuni – dice Mantella – «interessava per la vicenda Ceravolo, che stava tentando di aggiustare qualcosa qui a Roma, in Cassazione».

E Mantella diede riscontro alla «imbasciata» di Scarpuni, senza per questo rinunciare alla rivendicata sovranità su Vibo Valentia. E dal suo punto di vista avrebbe davvero trattato coi «guanti bianchi» l’avvocato Renda “limitandosi” ad imporre l’assunzione di una serie di lavoratori all’Eurospin e al pagamento di una somma annuale, tra i dieci ed i quindicimila euro che – per l’asserita esiguità – lo stesso Mantella non indica neppure come una mazzetta, ma chiama «retta», ovvero «una cosa così…».

«Un aiuto? No so»

Gli inquirenti vogliono tornare subito al processo Breccia: «Sa se poi per questa vicenda Pantaleone Mancuso ha avuto un qualche aiuto?». «Non lo so – la replica – So per certo che non è andato in carcere per quella vicenda lì… Perché poi l’hanno arrestato per altre cose, praticamente… Ma per questa no…». Per essere precisi, nell’ambito del procedimento Breccia, Mancuso e Colace scontarono la carcerazione preventiva, poi – come abbiamo già spiegato – furono assolti in via definitiva. Col tempo furono poi travolti, ognuno per conto proprio, da tutta una serie di vicende giudiziarie: Dinasty, Odissea, fino a Costa Pulita e al filone d’indagini inerenti la guerra di mafia del 2011-2012.

Quel favore personale…

Ma tornando all’avvocato Renda, egli aveva davvero uno zio, un parente o comunque un aggancio in Cassazione? Mantella, oltre le circostanze apprese da Ferrante, riferisce di aver parlato di una sua vicenda giudiziaria con lo stesso giurista-imprenditore chiedendo una intercessione sulla Suprema Corte.

La Corte di Cassazione

A domanda, Mantella risponde: «Io stesso ho chiesto un favore all’avvocato Renda nel 2009, mentre ero agli arresti ospedalieri presso la clinica cosentina Villa Verde. Ottenni la scarcerazione nel senso che venni sottratto a ogni vincolo. Ho già riferito che ottenni questa scarcerazione corrispondendo all’avvocato Staiano 60.000 euro. L’intesa con Staiano è che avrei dovuto essere scarcerato entro quindici giorni. Puntualmente venni scarcerato. La Dda fece ricorso per Cassazione per cui chiesi a Renda di interessare il suo parente in Cassazione per ottenere il rigetto del ricorso della Dda. Ottenni semplicemente un rinvio nella trattazione del ricorso. Infatti su consiglio dello stesso Renda chiesi al mio avvocato, che era Salvatore Staiano, di produrre una certificazione».

«Uno strappo alla regola»

E ancora: «L’avvocato Renda mi disse che il suo parente gli aveva a sua volta riferito che aveva fatto uno strappo alla regola in quanto questo genere di ricordi non consente rinvii. Lo stesso avvocato Renda mi aveva anticipato che il ricorso era fondato per cui sarei tornato agli arresti a Villa Verde. Così è stato fatto ma per effetto del rinvio ho preso tempo rimanendo libero».

Precisiamo che, con riguardo a questa vicenda narrata da Mantella, nulla è formalmente contestato all’avvocato Renda, la cui misura cautelare, nel procedimento Imponimento – ripetiamo – è stata annullata. Per la vicenda afferente invece le presunte false perizie che hanno consentito ad Andrea Mantella di ottenere i domiciliari nella clinica cosentina Villa Verde, così scongiurando il carcere, l’avvocato Staiano è tra coloro che sono stati rinviati a giudizio nell’ambito del processo intentato dalla Dda di Catanzaro.

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