Rinascita, il capobastone di Vibo parla ma i pm non gli credono – Video
Il pentimento a metà di Mimmo Camillò. Reticenze e contraddizioni dell’anziano presunto boss. Il verbale davanti a Dda e carabinieri. Un uomo diviso tra un figlio ed un nipote in carcere con gravi accuse ed un altro divenuto collaboratore di giustizia
È davanti al pm della Direzione distrettuale antimafia Antonio De Bernardo e ai vertici, riuniti, del Ros di Catanzaro e del comando provinciale di Vibo Valentia. Parla negli uffici del Comando legione dei carabinieri Calabria il 9 settembre scorso. È un verbale di interrogatorio di persona indagata in procedimento connesso ed è «illustrativo dei contenuti della collaborazione». Parla, ma non dice tutto, secondo gli inquirenti. Anzi, parla e contraddice. E si contraddice. [Continua]
L’interrogatorio del presunto boss
Una clamorosa collaborazione che, però, di fatto, al momento salta. Quella di Domenico Camillò, alias «zio Mimmo», classe 1941, tra i principali imputati del procedimento Rinascita Scott, considerato come il capo della rinata ‘ndrina dei c.d. Ranisi, ovvero i Camillò-Pardea-Macrì. Arrestato all’alba del 19 dicembre del 2019 nel corso della colossale operazione Rinascita Scott, ottiene gli arresti domiciliari nei giorni dell’emergenza Covid nelle carceri italiane ed in ragione dell’età. Dice e non dice, dunque, dimentica, va in conflitto con il narrato di altri collaboratori e, soprattutto, con delle emergenze investigative che per il pool di Nicola Gratteri e l’Arma sono invece solide come macigni.
Le conclusioni degli inquirenti
«Quanto finora riferito, oltre a risultare generico e confuso – si legge in coda al verbale redatto il 9 settembre scorso – risulta in parte non congruente con le risultanze processuali già acquisite e con più dichiarazioni di collaboratori di giustizia». Il presunto capomafia – si legge ancora – dimostra di sapere poco, troppo poco, sulle dinamiche criminali del suo gruppo «anche nell’ultimo periodo antecedente il suo arresto» e il suo racconto «appare nel migliore dei casi edulcorato, inverosimile, quando non gravato da lacune ed omissioni, o in contrasto con altri dati processuali». E ancora: «Per tali motivi l’ufficio ritiene che l’interrogato non abbia maturato una piena volontà collaborativa, per cui le dichiarazioni vengono considerate quali dichiarazioni difensive legittimamente rese, come tali valutabili…».
In pratica niente collaborazione con la giustizia, né piano di protezione provvisorio: «Non vi è interesse, allo stato, da parte di questo ufficio, a proseguire il presente interrogatorio». Una volontà di collaborare non pienamente maturata o solo una raffinata strategia per l’anziano presunto capomafia per fronteggiare e contenere lo tsunami di accuse mosse contro il suo clan nel maxiprocesso alla ‘ndrangheta?
Padre e nonno
Egli è il padre di Michele, che il 4 agosto scorso, detenuto a Lecce, alla Polizia penitenziaria ha chiesto di poter parlare il pool di Nicola Gratteri per avviare una collaborazione con la giustizia, poi formalizzata. Domenico Camillò, però, è anche il padre di Giuseppe ed è il nonno del giovanissimo Domenico, tutti coinvolti nella retata di dicembre. «Non so nulla di reati commessi a Vibo Valentia (estorsioni, danneggiamenti, intimidazioni ed altro), né con riferimento a quelli contestati nell’operazione Rinascita, né in generale». Una risposta, alle sollecitazioni degli inquirenti, che smentisce – di fatto – il proposito di pentirsi.
Chi è zio Mimmo Camillo?
Se Bartolomeo Arena – la cui collaborazione ha invece messo il sigillo sulla poderosa attività investigativa condotta da Dda e carabinieri sui nuovi assetti della ‘ndrangheta a Vibo Valentia – traccia dello «zio Mimmo» un profilo di assoluto spessore, sostenendo che egli abbia in assoluto le doti di ‘ndrangheta più elevate nell’intera provincia, anche in ragione delle sue entrature con don Micu Oppedisano di Rosarno e i mammasantissima della Locride, in quest’interrogatorio Domenico Camillò si mostra invece privo di memoria, incerto, concentrato più a minimizzare i pochi fatti che racconta anziché a circostanziarli.
Il passato prossimo
Spiega che il suo compito era quello di «armare» cioè di avviare, su sollecitazione di alcuni nipoti, una nuova entità criminale nella città di Vibo Valentia, salvo poi decidere di passare la mano. Ammette che sia il figlio Giuseppe che il nipote Domenico sono battezzati: del primo dice che è un «santista», dell’altro non sa indicare il grado. Quando il pm De Bernardo e i carabinieri tirano fuori il pizzino con la formula per il conferimento del Trequartino sul comodino del figlio, emerge quello che – a leggere le conclusioni degli inquirenti – sembrerebbe un bluff. «Tra padre e figlio – dice – anche per regola non si parla delle doti ricevute».
Il passato remoto
Il resto del racconto sono ricordi di gioventù: la sua affiliazione a vent’anni, quando a capo società a Vibo Valentia era Rosario Pardea, divenuto compagno della madre dopo la partenza del padre per la campagna di Russia. Picciotto, camorrista, sgarrista. Cresceva nelle doti ma restava «pulito», perché così serviva alla famiglia. Racconta della Vibo degli anni ’80 e della sequela di omicidi che portarono al dominio incontrastato dei Lo Bianco-Barba d’intesa coi Mancuso, fino all’operazione Nuova Alba e alla crescita di una nuova generazione di aspiranti mafiosi che si rivolse a lui per rimettere ordine e legittimarsi.
Don Micu e gli altri
Spiega chi comanda e dove. Dice che don Micu Oppedisano di Rosarno lo ha conosciuto in ospedale quando la figlia era ricoverata. Dice che conosce uno degli Aquino di Marina di Gioiosa ma non sa dire il nome di battesimo. Dice perfino di non ricordare di aver conosciuto Peppe Commisso, detto il Mastro, ovvero uno di quei pezzi da novanta che nella sua lavanderia di Siderno riceveva le visite di uomini d’onore di mezzo mondo. Uno che o lo conosci oppure no e se lo incontri, in sostanza, te lo ricordi.
Il padre di Michele
Anche questo verbale è depositato agli atti, assieme alle dichiarazioni del figlio Michele, passato invece a tutti gli effetti tra le fila dei collaboratori di giustizia. Lucido, Michele, circostanziato, parla anche di suo padre che «sta scontando gli arresti domiciliari in provincia di Lecce. Mio padre – dice Michele – è ormai anziano e malato, non so se appoggerà la mia scelta e se intenderà fare una scelta analoga, ma la mia decisione è presa». Un ragazzo «pulito» fino al 2012, poi l’affiliazione ad opera di Bartolomeo Arena e dei Pardea, fino a Rinascita Scott.
Un uomo diviso?
E forse è proprio nelle parole di Michele che pensa a suo padre che potrebbe spiegarsi l’atteggiamento dell’anziano presunto boss: un uomo certamente avanti negli anni, provatoe diviso tra un figlio ed un nipote, in prigione ed in attesa di giudizio in uno dei processi più importanti della storia, ed un altro che ha deciso di abbracciare la causa della giustizia per cambiare vita.