“Imponimento”, quel carico da 300 metri quadri di eternit buttato nel bosco sotto tutela
Dalla carte dell’inchiesta emergono i gravi reati ambientali perpetrati dal clan Anello attraverso lo smaltimento illecito di rifiuti pericolosi. L’amianto finito nell’area in cui si vuol realizzare l'Eco-distretto
Una buca vicino ad un fiume, una cava, un castagneto, un bosco. Sono le opzioni che gli uomini più vicini a Rocco Anello – capo indiscusso dell’omonima consorteria – prendono in considerazione come luoghi per smaltire un carico scottante: 300 metri quadri di eternit ridotto in frantumi, derivante dalle demolizioni effettuate sul cantiere del costruendo resort Galìa di Pizzo di proprietà della Genco Carmela e figli Srl. Ad impartire l’ordine è lo stesso capobastone di Filadelfia, sceso nel cantiere napitino per trattare direttamente con l’avvocato Vincenzo Renda, socio e factotum della società proprietaria dell’area. A dover trovare una soluzione, non senza intoppi, sono invece chiamati due sodali del clan: Daniele Prestanicola, imprenditore nel campo del movimento terra, e Nicola Antonio Monteleone di Polia, attivo nella forestazione (entrambi arrestati). [Continua]
È il 21 luglio del 2017. Esattamente 3 anni fa. Le Fiamme gialle di Catanzaro ascoltano e annotano ogni cosa delle intercettazioni che andranno a intessere la poderosa inchiesta “Imponimento”, che – con il coordinamento della Dda – ieri ha portato all’arresto di 74 persone in affari con il clan Anello-Furci sull’asse Calabria-Svizzerra. Nel cantiere di località Savelli a Pizzo si pianificano le operazioni di sbancamento e demolizione delle vecchie baracche che verranno poi sostituite dal residence di lusso. Struttura che finirà, nell’aprile di quest’anno, ancora nel mirino della Guardia di finanza, costando una nuova accusa di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio all’ex sindaco di Pizzo Gianluca Callipo che avrebbe favorito gli interessi dell’impresa Genco a discapito di un diretto concorrente.
Tornando all’incontro tra Anello e Renda, emerge fin da subito un nodo non da poco: liberarsi di oltre 300 metri quadri di coperture in eternit senza dover ricorrere a costose ditte specializzate e lunghe procedure burocratiche. Tanto che per l’operazione in questione il boss prevedeva di utilizzare due operai senza escavatore, in modo da non dare troppo nell’occhio e non subire il sequestro dell’area. Assicurando che, dopo lo smontaggio, avrebbe fatto caricare l’eternit su un mezzo e lo avrebbe portato via.
Allo scopo veniva quindi contattato proprio Daniele Prestanicola, il quale proponeva ad Anello di lasciare il materiale a bordo del camion, per poi cercare un luogo dove sversarlo o scavare una buca nella quale scaricarlo. Anello però rispondeva negativamente sollecitando il sodale a trovare un posto quanto prima o a triturare il materiale nel suo impianto di produzione di calcestruzzo. “Ma questi – gli suggerisce – li potevano anche macinare nel mulino, per buttarli nel cemento”. “Si vedono, a Zì, nooo”, la riposta di Prestanicola. Anello insiste: “Nel mulino. Se li macina il mulino che si vede?”. E Prestanicola: “Si vede, si vede… manchi i cana”.
È evidente, annotano gli investigatori della Guardia di finanza, che considerata la natura inquinante del materiale da smaltire, anche per Prestanicola risultava eccessivamente rischiosa la soluzione proposta mentre egli stesso si apprestava, senza scrupoli, a scaricare materiale inquinante nelle campagne. Di fronte all’insistenza di Anello, Prestanicola formula quindi una serie di ipotesi di luoghi “idonei”: nei pressi di una cava, in un terreno nella parte bassa di Maierato, nel terreno di un amico, in una buca da scavare nella proprietà di Monteleone, situata vicino ad un fiume. Quest’ultimo, però, nonostante si mostrasse pronto e disponibile a dare consigli su località e modi per far liberare Prestanicola dall’incombenza, rispondeva bestemmiando: “…u materiale inquinante mu porti a casa mia“. Insomma, nessuno voleva aver a che fare con quel carico di morte.
Pressato da Anello (“Idu non lo sai com’è che ti fa impazzire…”), alla fine la scelta di Prestanicola ricade su un’area boschiva, che gli investigatori dapprima descrivono come una generica pineta tra Filogaso e Sant’Onofrio e successivamente individuano con precisione, grazie al tracciamento del segnale telefonico, nel bosco di località Vajoti, nel territorio comunale di Sant’Onofrio, lungo la provinciale per Vazzano. Luogo già noto alle cronache per essere quello individuato dall’Ato n.4 di Vibo Valentia come il sito in cui dovrà sorgere l’Eco-distretto consortile e, in particolare, la discarica di servizio. L’intento del clan, dunque, di fatto, anticipa quel tipo di utilizzo dell’area per disfarsi però di materiale altamente pericoloso.
E così effettivamente avviene quando, dopo attenta pianificazione, il 26 luglio del 2017, Prestanicola incontra nei pressi del Carrefour di Maierato Angelo Galati e Francesco Conidi, dipendenti dell’impresa di Anello (entrambi arrestati), e rivolgendosi al primo afferma “n’arrestano… u sai no?”, facendogli capire l’importanza di muoversi con circospezione e velocità. Quindi si mette in movimento a bordo di un mezzo in compagnia di Conidi e, come a rassicurarlo – riferendosi al materiale da smaltire – gli dice: “Poi li vede qualcuno, sicuramente, poi reclamano e li tolgono”. I due sono seguiti da Galati sul mezzo carico di eternit, si immettono in una strada sterrata e lì Prestanicola rivela di aver già buttato rifiuti in quel luogo (“Una volta qua sotto le ho buttate”). Quindi fa scendere Conidi dal mezzo, dicendogli di attendere l’arrivo di Galati per evitare “Che non passi e se ne vada dritto”, mentre lui va a controllare il sito dove abbandonare i rifiuti. Galati sopraggiunge qualche minuto dopo. La concitazione è palpabile: “Oh. Cammina con questo… Angelo, quando entriamo nella stradella devi camminare. Quando arrivi, ribalti e ce ne andiamo… in mezzo ai coglioni”. Pochi minuti dopo, il cellulare intercettato capta rumori di materiale che viene scaricato a terra. Quindi i tre si rimettono rapidamente in marcia soddisfatti di aver fatto un lavoro “pulito-pulito”.
Da un successivo sopralluogo delle Fiamme gialle, effettuato il 22 maggio scorso, si è accertato come il luogo in cui erano stati sversati 300 metri quadri di eternit fosse proprio il bosco di località Vajoti di Sant’Onofrio. Un’area verde, situata sulla vecchia provinciale 64, sotto la tutela della Regione Calabria/Consorzio di bonifica integrale e del Consorzio di bonifica Tirreno-Vibonese. Sono gli stessi militari ad individuare in loco un cumulo di materiale di risulta ed eternit, parte di una più ampia quantità già rimossa da una ruspa, presumibilmente su ordine emesso dall’autorità giudiziaria visto che – annotano – vicino ai rifiuti veniva trovato parte di nastro bicolore dei Carabinieri, utilizzato per porre sotto sequestro l’area.
Dai successivi rilievi sul portale dell’Agenzia delle Entrate, emerge che l’area interessata dallo sversamento, dal 28 novembre 2008 è intestata alla Banplastik Srl, legalmente rappresentata dal sindaco di Vazzano Vincenzo Massa, mentre dal 20 settembre 2019, è passata alla Ecosistem Srl di Lamezia Terme, colosso nel settore dei rifiuti che ha piazzato la sua bandierina in vista della realizzazione del contestato Eco-distretto. Le due aziende, così come i loro legali rappresentanti, si precisa, risultano estranee all’inchiesta.