Rinascita-Scott, Mantella e l’omicidio Gangitano: «Ecco dove l’abbiamo sepolto» – Video
Detto “Pippo il Picciotto”, il cugino del collaboratore di giustizia fu ucciso perché ritenuto omosessuale. La drammatica ricostruzione dell’esecuzione e il racconto sullo scempio che gli animali fecero del cadavere
Lo chiamavano «Pippu ’u Picciottu». E da picciotto – almeno a leggere i verbali dei collaboratori di giustizia – si comportava. La ‘ngiuria di Filippo Gancitano, però, forse non era dovuta alla sua dote di ‘ndrangheta, perché lui era un uomo d’azione e dopo aver avuto il battesimo del sangue avrà certamente fatto carriera e superato abbondantemente il primo grado. Forse la doveva, la ‘ngiuria, alla sua bassa statura, forse a quell’incedere ondeggiante che richiamava lo stile del malandrino.
L’ordine: «Sparate alla vagina»
Spacciava – raccontano i pentiti – ed era un esecutore di ordini. A sparare, una volta ricevute le disposizioni dall’alto, non esitava, anche se si trattava di donne. Come quella volta che – spiega oggi Andrea Mantella, il cugino che poi fu comandato di sopprimerlo e farlo sparire – Pippo attentò alla vita di una donna. Aveva tradito il marito, legato da vincoli parentali ad esponenti di spicco della mala locale, e per questo l’ordine era di colpirla «alla vagina». Mantella guidava la moto, Gancitano la prese a pistolettate ma il tentativo d’omicidio si tradusse in una brutale gambizzazione. Anche questo, nero su bianco, agli atti di “Rinascita Scott”.
La lupara bianca
Perfino i suoi amici lo descrivevano agli inquirenti come una persona di indole cattiva, che procurava solo guai, a se stesso e agli altri. Non era affatto uno stinco di santo, il Picciotto, e così, quando il 27 gennaio 2002 fu denunciata la sua scomparsa, si pensò ad un regolamento di conti in seno alla criminalità organizzata, che magari poteva aver tolto preventivamente di mezzo uno che si riteneva potesse pentirsi. Quel caso di lupara bianca finì pertanto solo con l’aggiornare le statistiche degli scomparsi in una provincia divenuta sin dagli anni ‘80 un buco nero che inghiottiva vite, non restituiva cadaveri e lasciava fantasmi. Quasi diciotto anni dopo, invece, scatta la colossale operazione del pool di Nicola Gratteri e dei carabinieri che attribuisce una diversa luce a quella sparizione e tratteggia lo straziante schizzo di cosa fosse, in quegli anni, Vibo Valentia.
Le «voci», una condanna
I vertici del clan Lo Bianco – mette a verbale Andrea Mantella – decisero che Gancitano andava eliminato perché «omosessuale». Che fosse vero o meno, poco importava. «La città era piena» e ciò divenne una sentenza senza appello, perché la ‘ndrangheta aveva delle regole e perché bisognava «dare conto a San Luca», che non accettava gay tra gli affiliati. Di vero c’era che Filippo Gancitano, allora trentacinquenne, aveva un amico più giovane dal quale non si separava quasi mai. E quel legame che appariva fortissimo, quasi simbiotico, finì con l’alimentare le voci, voci che – riscontrate o meno che fossero – si tradussero in una condanna a morte.
La trappola, l’esecuzione
Andrea Mantella, su quel delitto, incalzato dagli inquirenti, si sofferma più volte. Offre informazioni preziose per consentire alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro di elevare uno dei capi d’imputazione che potrebbero condurre “Rinascita Scott” davanti alla Corte d’Assise. Spiega di aver provato a salvare la vita del cugino, ma i suoi sforzi furono inutili e così egli stesso dovette farsi carico di attirarlo in una trappola, coinvolgendo con l’inganno pure i suoi fratelli, ignari di quale fosse il piano, per consegnarlo al fucile di colui il quale l’avrebbe ammazzato, Francesco Scrugli, a sua volta assassinato, dieci anni dopo, nella guerra di mafia tra i Patania di Stefanaconi ed il clan dei Piscopisani.
Le indicazioni di Mantella
Hanno in mano – il pool di Gratteri e i carabinieri del Ros – una ricostruzione storica, presunti mandanti, esecutori materiali e fiancheggiatori che avrebbero collaborato nell’occultamento del cadavere, e hanno anche le indicazioni per ritrovare i resti di Gancitano. Le offre proprio Mantella, nel corso di un lungo interrogatorio a cui viene sottoposto, a Roma, nel quartier generale del Ros, davanti al pm antimafia di Catanzaro Annamaria Frustaci. Uno degli ufficiali di polizia giudiziaria presenti richiama l’attenzione del collaboratore di giustizia e gli sottopone foto e planimetrie della strada provinciale numero 15, che collega Vibo e Stefanaconi. Vengono ripresi dall’alto la strada, l’azienda agricola dello stesso Mantella, sotto sequestro sin dal 2011, quando scattò l’operazione della Guardia di Finanza denominata “Dolly”.
L’ex killer spiega che Gancitano fu atteso da Scrugli, nascosto dietro una balla di fieno, nella masseria. Sparò con un fucile calibro 12 e lo colpì alla testa. Esanime, venne messo in un sacco, caricato su una carriola e portato dall’altra parte della strada, dove fu seppellito. Ma Mantella aggiunge un altro particolare agghiacciante. Randagi e animali selvatici, avvertendo l’odore del cadavere, nascosto sotto pochi centimetri di terra, scavarono e, dopo qualche giorno, fecero affiorare alcuni resti, facendone scempio.
Il cadavere mai più trovato
Così il collaboratore di giustizia diede ordine di bruciare il corpo assieme ad alcuni vecchi pneumatici e di sotterrare nuovamente ciò che restava. Quei resti straziati sono ancora lì seppelliti, mai più venuti alla luce, nonostante gli interventi di costruzione della Tangenziale Est, la milionaria eterna incompiuta della provincia di Vibo Valentia, e di ammodernamento e messa in sicurezza della vecchia Sp15. Ce n’è stato, in questi diciotto anni, di movimento terra da quelle parti, ma nessuno si sarebbe mai accorto della presenza del corpo del Picciotto. Resti che Dda e Ros sperano di poter ritrovare.