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‘Ndrangheta: esecuzione pena per il boss, respinta la richiesta di Giuseppe Mancuso

Verdetto della Cassazione. Condannato all’ergastolo, con pena poi portata a 30 anni, l’esponente più temuto del clan di Limbadi aveva chiesto la “continuazione” fra i reati di omicidio, associazione mafiosa e favoreggiamento

‘Ndrangheta: esecuzione pena per il boss, respinta la richiesta di Giuseppe Mancuso

La prima sezione penale della Corte di Cassazione ha ritenuto “inammissibile” il ricorso di Giuseppe Mancuso, 68 anni, alias ‘Mbroghija”, di Limbadi, da sempre ritenuto il “braccio armato” dell’omonimo clan e boss di prima grandezza dell’intera ‘ndrangheta calabrese.

Il 13 luglio 2016 la Corte di Assise d’Appello di Reggio Calabria aveva rigettato l’istanza proposta da Giuseppe Mancuso volta ad ottenere l’applicazione in sede esecutiva della continuazione fra i reati di favoreggiamento personale e quelli, separatamente giudicati, di partecipazione ad associazione di stampo mafioso ed omicidio. Continuazione che, se riconosciuta, gli avrebbe permesso di “scalare” di qualche anno rispetto alla pena ancora da scontare. 

Avverso tale decisione, Giuseppe Mancuso ha proposto ricorso per Cassazione lamentando una serie di violazioni di legge sull’incidente di esecuzione e l’applicazione della fungibilità della pena.

La decisione della Cassazione. Per la Suprema Corte, i giudici di Reggio Calabria hanno analizzato le vicende fattuali, oggetto di accertamento nelle due sentenze emesse a carico di Giuseppe Mancuso, evidenziando che per fatti compiuti sino al 31 gennaio 1980 il boss ha riportato una prima condanna per il delitto di favoreggiamento personale nei confronti del latitante Michele Cutellè di Laureana di Borrello e che sin da epoca antecedente al 1994, Peppe ‘Mbroghija” è risultato poi intraneo all’omonima associazione mafiosa nell’ambito della cui militanza aveva realizzato in data 11 gennaio 1991 l’omicidio di Vincenzo Chindamo ed il grave ferimento del fratello Antonio Chindamo episodio criminoso inserito nella faida di Laurena che aveva opposto le famiglie dei Chindamo e dei Cutellè.  In tale contesto, i Mancuso di Limbadi ed i Molè di Gioia Tauro si erano schierati con i Cutellè e nel commando di fuoco inviato per sparare contro i Chindamo ha fatto parte (inviato proprio da Peppe Mancuso) anche Michele Iannello di San Giovanni di Mileto, poi condannato per l’omicidio di Nicolas Green, il bimbo americano di 7 anni ucciso per errore sull’autostrada nel 1994.

Il processo “Tirreno” e le precedenti vicende di Mancuso. Secondo la Cassazione, inoltre, è corretto che la Corte di Reggio Calabria abbia respinto la richiesta di Giuseppe Mancuso (in foto) di scomputo per fungibilità del periodo di custodia cautelare, sofferto tra il 15 gennaio 1985 ed il 4 novembre 1989 per il delitto di associazione mafiosa dal quale era stato poi mandato assolto (si tratta va del primo maxiprocesso alla ‘ndrangheta vibonese istruito nel 1985) dalla pena (ergastolo) inflittagli nel 2004 in appello nel dicembre 2004 nel processo nato dalla storica operazione antimafia della Dda di Reggio Calabria denominata “Tirreno”, scattata nel 1993.

Con tale precedente provvedimento, seppur a diversi fini, era stata già esclusa la possibilità di anticipare il periodo di consumazione del reato di associativo contestato sino al 13 settembre 1982, data di entrata in vigore nel codice penale dell’articolo 416 bis che punisce l’associazione mafiosa, poiché da tale addebito Mancuso era stato comunque assolto con pronuncia irrevocabile. In tal modo, il periodo di carcerazione per custodia cautelare risultava sofferto prima della consumazione della condotta partecipativa accertata con la sentenza dell’11 dicembre 2004.

Per la Cassazione, quindi, nessun elemento autorizza a ritenere che sin dal 31 gennaio 1980 Giuseppe Mancuso avesse già programmato l’omicidio di Vincenzo Chindamo, realizzato undici anni dopo, tanto più che tale delitto costituiva una reazione ai conflitti insorti fra i clan dal 1988 in poi ed esso si era inserito nella seconda fase verificatasi dopo il 1990, sicchè nel periodo di realizzazione del favoreggiamento della latitanza del Cutellè i dissidi che avevano opposto costoro ai Chindamo non erano ancora insorti e non erano nemmeno prevedibili.

Anche per la Cassazione, dunque, è da ritenersi corretto il ragionamento logico-giuridico che ha negato la riconducibilità ad un medesimo disegno criminoso dei delitti giudicati a carico di Giuseppe Mancuso, e da qui l’inammissibilità del ricorso.

La figura del superboss. Giuseppe Mancuso si trova detenuto dal 1997 quando era stato catturato dai carabinieri in un casolare nelle campagne di San Calogero dopo essere sfuggito nel 1993 al blitz dell’operazione “Tirreno” dandosi alla latitanza. Assolto a Vibo nel processo “Dinasty”, nel maggio del 2013 Giuseppe Mancuso è stato assolto dal Tribunale di Vibo Valentia anche dal processo “Genesi”, ritenendo i giudici che in tale caso l’imputato era già stato condannato per gli stessi fatti nell’ambito del processo “Tirreno”, celebrato in primo grado a Palmi ed in appello a Reggio Calabria. Nel processo “Genesi”, dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia l’allora procuratore della Dda di Catanzaro, Giuseppe Borrelli ed il pm antimafia Simona Rossi avevano chiesto per Giuseppe Mancuso, e per lo zio Luigi Mancuso, la condanna a 27 anni di reclusione a testa. Dopo le assoluzioni di entrambi, però, la Dda di Catanzaro non ha appellato il verdetto e per i due Mancuso, zio e nipote, il proscioglimento è divenuto definitivo.

La pena dell’ergastolo rimediata in via definitiva in “Tirreno” gli è stata invece qualche anno fa tramutata in 30 anni di reclusione. Nonostante il mancato riconoscimento della “continuazione dei reati”, fra buona condotta e “sconto” di 90 giorni per ogni anno di detenzione, fra qualche anno Giuseppe Mancuso (fratello maggiore dei boss Diego, Francesco detto “Tabacco” e Pantaleone detto l’”Ingegnere”) potrebbe ugualmente riacquistare la totale libertà.

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