Arena, vivo per miracolo dopo un agguato: «Ora mi negano il porto d’armi» – Video
Il racconto di Franco Franzè, vittima di 'ndrangheta che con la sua famiglia si era ribellato al racket della “mafia del pane”: «Oggi mi sento tradito dallo Stato»
Franco Franzè, parlando sul luogo dell’agguato subito nel 1995, descrive per la prima volta una dinamica agghiacciante: «Mi spararono con un fucile caricato a pallettoni e tentarono di finirmi con una cartuccia usata per la caccia al cinghiale, mi salvai perché mi finsi morto».
A lui la campagna delle Preserre vibonesi rievoca una morte scampata per miracolo, mentre a sua madre – Anna Barba, una commerciante di Arena, oggi pensionata – il punto più drammatico di una lunga escalation. «Avevo denunciato la mafia del pane – spiega la donna – mi tagliarono un uliveto, mi bruciarono la porta del negozio, mi picchiarono solo perché avevo osato non pagare il pizzo e rifornirmi da grossisti senza chiedere il permesso ai mafiosi».
Furono condannati i quattro che ordirono l’agguato, fra loro anche il boss Antonio Gallace, ma oggi mamma e figlio si sentono traditi dallo Stato per via di un documento della questura di Vibo Valentia.
«Non hanno rinnovato il porto d’armi a mio figlio – denuncia la signora – considerandolo erroneamente un testimone di giustizia, mentre è stato riconosciuto come vittima di mafia, e richiamando la parentela con un pregiudicato: tutte le sentenze dei processi nati dalle mie denunce hanno confermato la credibilità della mia famiglia, lo Stato ora ci gira le spalle ma è vergognoso».
Anna Barba ha chiesto al prefetto Francesco Zito un incontro al quale chiede che ci sia anche il procuratore Camillo Falvo: «Devono spiegarmi perché da qualche tempo sembra che in Questura ci sia qualcuno che ce l’ha con la mia famiglia».