“Rinascita”: il clan Lo Bianco-Barba ed il potere mafioso a Vibo
La genesi della cosca, la faida con il gruppo di San Gregorio, la sottomissione ai Mancuso ed i verbali inediti di Mantella, fra omicidi e vendette
Ricostruisce la genesi e l’evoluzione del clan Lo Bianco-Barba, l’operazione “Rinascita-Scott” della Dda di Catanzaro e dei carabinieri delineandone gli affari ed il dominio sulla città di Vibo Valentia sino all’attualità. Prima dei Lo Bianco e dei Barba, a dominare la scena mafiosa sulla città di Vibo Valentia sono stati tuttavia i Pardea (alcuni discendenti ritornati protagonisti nell’attualità e coinvolti nell’operazione “Rinascita”), legati alla ‘ndrangheta reggina e con importanti amicizie politiche in città (specie il defunto Domenico Pardea) che gli hanno consentito, sin dal 1966, di realizzare proprio a Vibo persino impianti di carburanti in luoghi non consentiti dal Piano regolatore generale con il benestare del sindaco dell’epoca.
Nato attorno alla figura del defunto Carmelo Lo Bianco (cl. 32), detto “Piccinni” (deceduto in carcere a Parma nel 2014), al quale le “doti” mafiose sarebbero state conferite negli anni ’60 proprio dai Pardea, il clan Lo Bianco si sarebbe legato a doppio-filo ai Mancuso di Limbadi, specie dopo l’omicidio di Francesco Fortuna, alias “Ciccio Pomodoro”, ritenuto anche lui a capo della consorteria insieme a Carmelo Lo Bianco. [Continua dopo la pubblicità]
All’interno del clan – e specie dopo il decesso nel dicembre del 2016 di Carmelo Lo Bianco (cl. ’45), detto “Sicarro”, altra figura di rilievo della consorteria mafiosa (cugino di Piccinni) – un ruolo “rilevantissimo” sarebbe stato assunto negli anni da Enzo Barba, detto “Il Musichiere”, 68 anni, di Vibo Valentia, anche lui fra gli arrestati dell’operazione “Rinascita-Scott” in qualità di promotore della cosca.
Un’accusa che Vincenzo Barba condivide unitamente a Paolino Lo Bianco (figlio del defunto “Piccinni”), Filippo Catania (cognato del defunto “Piccinni”), Antonio Lo Bianco (cl. ’48) e Raffaele Franzè, detto “Lele U Svizzeru”, deceduto nel maggio dello scorso anno. Si tratta di personaggi tutti condannati a seguito dell’operazione “Nuova Alba” condotta dalla Squadra Mobile di Vibo nel febbraio del 2007, ulteriore dimostrazione che il carcere non sarebbe servito a “rieducare” nessuno di loro. Enzo Barba è ora accusato di aver svolto, alternativamente a Raffaele Franzè, il ruolo di “contabile” del clan.
La storia della consorteria di Vibo. Negli anni ’80 su Vibo Valentia, secondo le risultanze investigative dell’operazione “Rinascita-Scott” vi era un’unica Società di ‘ndrangheta nella quale confluivano diverse famiglie mafiose, sia quella dei Pardea che quella dei Lo Bianco: la carica di «contabile» era detenuta da Carmelo Lo Bianco (cl.’32) detto “Pizzinni”, quella di «capo società» da Francesco Fortuna, detto “Ciccio Pomodoro”, ritenuto all’epoca vicino ai Pardea. Sino al 1977 a mediare i contrasti fra i Pardea ed i Lo Bianco ci avrebbe pensato Antonio Zoccali, vecchio patriarca della ‘ndrangheta, mandato al confino da Santo Stefano d’Aspromonte a Vibo Valentia.
La guerra con i Gasparro. Un punto di svolta avveniva quindi il 1° luglio 1981 quando, a seguito di un regolamento di conti nella piazza principale di San Gregorio d’Ippona, Francesco Fortuna esplodeva diversi colpi d’arma da fuoco uccidendo il 32enne Giuseppe Gasparro detto “Pino u Gattu”, ritenuto all’epoca a capo del gruppo Fiarè-Gasparro-Razionale. Nella sparatoria restava ferito ad un occhio il cognato di Gasparro, l’allora ventenne Saverio Razionale, ora fra i principali protagonisti dell’inchiesta “Rinascita-Scott”.
L’azione omicidiaria muoveva da un presunto furto di bestiame che il nipote di Francesco Fortuna, ovvero Pasquale Franzè, aveva attribuito a Gasparro. Iniziava così la faida tra i sangregoresi e i vibonesi.
Francesco Fortuna (“Ciccio Pomodoro”), dopo un primo periodo di latitanza, veniva arrestato il 22 ottobre 1981 e condannato in primo grado a 24 anni di reclusione ma, il 31 dicembre 1985 veniva scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare in attesa della definizione del procedimento.
Il ruolo dei Mancuso ed il “veto” su Lo Bianco. La faida culminava con l’omicidio dello stesso Francesco Fortuna in un agguato a Pizzo il 23 settembre 1988. Secondo il racconto di più collaboratori di giustizia, l’omicidio di Gasparro, avvenuto per futili motivi, sarebbe stato cavalcato dai Mancuso che avrebbero intravisto nell’eliminazione di “Ciccio Pomodoro” la possibilità di espandersi sulla città di Vibo, avvalendosi di Carmelo Lo Bianco (detto “Piccinni”), ritenuto più malleabile. Secondo gli inquirenti, ciò spiegherebbe perché – pur parteggiando per i Fiarè-Gasparro-Razionale – gli stessi Mancuso avrebbero posto un veto all’eliminazione di Carmelo Lo Bianco, come era invece intenzione dei sangregoresi.
Il racconto inedito di Mantella. “Una sera di quegli anni Pasquale Franzè, detto U Tarra, fece un “traggiro” andando da suo zio Francesco Fortuna, detto “Ciccio Pomodoro”, che era un importante ‘ndranghetista, per dirgli che “Pino “U Gattu” ovvero Giuseppe Gasparro, padre di Gregorio Gasparro, gli aveva rubato il bestiame, le vacche, una cosa che non era vera.“Ciccio Pomodoro” – fa mettere a verbale Mantella il 9 giugno 2016 – quella notte stessa andò a chiedere chiarimenti a Pino Gasparro, anche perchè erano amici. Nel corso del chiarimento, poichè negava giustamente di aver rubato le vacche, “Ciccio Pomodoro”, che poi hanno ammazzato sulla via Nazionale a Pizzo, in quella stessa circostanza sparò nella piazza del paese di San Gregorio d’Ippona a Pino Gasparro e lo uccise. Per questo fatto lui è stato condannato a 24 anni di carcere.
Da ciò conseguì la guerra tra i vibonesi e quelli di San Gregorio; questa guerra ha portato all’uccisione di Domenico Lo Bianco, fratello di mia madre, di Antonio Galati, al ferimento del fratello di mia madre, Vincenzo Lo Bianco, che abitava a San Gregorio, al tentato omicidio di Antonio Lo Bianco cl. ’48. Alla fine di questa guerra – spiega Mantella – fu trovato un accordo anche tramite i Mancuso con il gruppo Fiarè-Gasparro-Razionale, nel quale si decise che i Lo Bianco di San Gregorio dovevano tornarsene a Vibo”.
Allo stato rimangono impuniti gli omicidi di Domenico Lo Bianco e di Antonio Galati ed i tentati omicidi di Vincenzo Lo Bianco e Antonio Lo Bianco.
La sottomissione dei Lo Bianco ai Mancuso. E’ ancora Andrea Mantella a delineare agli inquirenti l’evoluzione dei rapporti fra i Lo Bianco di Vibo ed i Mancuso di Limbadi. “Agli inizi degli anni 2000, dopo essere uscito dal carcere per l’omicidio Manco, poiché durante la carcerazione avevo compreso che i Lo Bianco erano sottomessi ai Manco, decisi – ha spiegato il collaboratore di giustizia – di avere maggiore autonomia. A Vibo tutti eravamo impauriti dai Mancuso, gli stessi Lo Bianco ci dicevano che ci potevano far ammazzare facendoci sparire di lupara bianca.
Ogni volta che la cosca Lo Bianco prendeva dei soldi, il 50% dei proventi li doveva dare ai Mancuso. In particolare i soldi andavano soprattutto ad Antonio Mancuso, detto “Zio Ntoni”, e Luigi Mancuso; in parte anche a Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”. Enzo Barba, il“Musichiere”, mi disse – racconta ancora Mantella – di un’umiliazione che aveva subito per mano di Mancuso Giuseppe, detto “Peppe Mbrogghia”. Del fatto di volermi staccare dai Lo Bianco ne avevo parlato in carcere con Francesco Giampà, “il Professore”, di Lamezia Terme, il quale mi confermò che a Vibo non comandavano i Lo Bianco ma i Mancuso”.
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