Un’ascesa criminale al capolinea. Adesso le vittime rompano il silenzio
I racconti dei pentiti. Il nuovo ordine mafioso che tentarono di imporre gli antagonisti dei Mancuso nella provincia di Vibo Valentia, aggiungendo terrore a terrore. Gli inquirenti chiamati a chiudere il cerchio. E le vittime a trovare il coraggio di rompere il silenzio
Hanno ucciso senza pietà, anche davanti agli occhi terrorizzati di due bambine. Hanno gambizzato, ferito, picchiato, minacciato, rapinato, taglieggiato. Hanno sparato, incendiato, fatto saltare in aria. E non hanno guardato in faccia a nessuno: uomini in divisa, estranei, innocenti.
Quella sera, quando presero a fucilate la hall di un hotel (foto in basso), rischiarono di fare una strage. Così era, malgrado il pentito oggi dica che loro, «per amore del popolo», per «farsi amare dal popolo», di estorsioni ne facevano «pochissime».
Restano i fatti, la cronaca, così violenta e inclemente, che si diluisce nel tempo e crea assuefazione. Ripercorsa d’un fiato da chi quelle azioni le ha vissute, perché le ha compiute, pianificate o condivise, fa impressione.
Raffaele Moscato, oggi collaboratore di giustizia, è il testimone chiave di una saga criminale che ha aggiunto violenza a violenza, paura a paura. Si esprime con la scioltezza di chi ha studiato, e con la lucidità di chi la scelta, l’ultima, quella di cambiare definitivamente vita, l’ha ponderata.
Cresciuto a pane e malavita, racconta come il suo gruppo criminale, quello dei Piscopisani, legandosi agli scissionisti emergenti di Vibo e ai Tripodi su Vibo Marina, ai Vallelunga delle Serre e agli Emanuele delle Preserre, abbia cercato di violare alcune delle enclavi storiche del clan Mancuso. Racconta come alcune di quelle enclavi prima se le siano divise e poi prese. Hanno messo le mani su ciò che era infetto, hanno tentato di infettare pure ciò che non lo era.
Vibo Marina, tra il 2008 e il 2013, è stata l’epicentro di tutto. Qui teneva il vecchio ordine Michele Palumbo. Era lui – dicono le cronache giudiziarie – il factotum di Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, il capo dell’ala militare del clan di Limbadi e Nicotera. Non potendo ammazzare il boss, allora in galera, fecero fuori il suo luogotenente. Accadde la sera del 10 marzo 2010, davanti alle figliolette (foto sotto).
I Mancuso risposero mandando un sicario, a bordo di una moto, direttamente nel cuore di Piscopio: ma l’obiettivo designato, Rosario Battaglia, il giovane padrino dal grilletto facile, salvò la pelle.
Piscopisani e soci rimpiazzarono così una cappa asfissiante, quella imposta dai Mancuso e dai Tripodi, una volta in sintonia e nel tempo fiaccati dalle maxioperazioni “Dinasty” e “Lybra”, con la loro. Ma non bastava, perché loro, capi e accoliti di un cartello criminale crudele e spregiudicato, volevano lanciare un messaggio urbi et orbi. È lo stesso Moscato a spiegarlo ai magistrati della Procura antimafia di Catanzaro: “Scarpuni”, ormai uscito dal carcere, non volevano solo ammazzarlo. “Volevamo tagliargli la testa”, spiega il collaboratore. Un feticcio da appendere sulla pubblica piazza di una provincia che, così, avrebbe conosciuto un nuovo ordine mafioso.
Una escalation criminale, quella di cui Raffaele Moscato fu coprotagonista, che non fece però i conti con gli effetti imprevedibili della faida ingaggiata coi Patania di Stefanaconi, sulla quale seppe astutamente soffiare, mettendo a disposizione armi, soldi e sicari, proprio “Scarpuni” (foto), che condannò a morte lo stesso futuro collaborante: doveva saltare in aria, grazie ad una bomba che il boss di Nicotera mise a disposizione di un orfano di mafia, Rinaldo Loielo, figlio e nipote di Giuseppe e Vincenzo Loielo, i boss delle Preserre brutalmente trucidati nel 2002 da Bruno Emanuele, ovvero uno che la guerra ai Mancuso iniziò a farla da quando ancora il pizzo lo si imponeva in lire. Perché i Piscopisani, in fondo, non sfidarono solo una delle cosche più pericolose al mondo sul piano economico e militare: si misero contro un pezzo di storia della ‘ndrangheta.
Così Moscato (foto), già sopravvissuto all’agguato che nel 2012 costò la vita a Francesco Scrugli, decise di parlare: meglio provare a cambiare vita, anche se ripartendo dal carcere, sotto la protezione dello Stato, che finire cadavere. Dopo di lui, scelse di saltare il fosso un altro che confessa di averne di morti sulla coscienza: Andrea Mantella, quello che uscì su Cronaca Vera perché faceva estorsioni da quando aveva “dodici anni” e che “il coraggio – disse deponendo in videoconferenza da una località segreta – l’avevo da quando ero nella pancia di mia madre”. Più istintivo, più arrabbiato di Moscato, meno circostanziato nei suoi racconti, per i pm antimafia però, ugualmente prolifico.
Racconti, quelli di Moscato e Mantella (foto a destra), che sovente diventano sovrapponibili, utili per mandare all’ergastolo più di qualcuno, per mandare in galera tre generazioni. Per fare luce su quasi tre lustri di mafia e terrore. Ci lavora l’élite dell’antimafia: il procuratore Gratteri e l’aggiunto Bombardieri, i carabinieri del Ros di Catanzaro e del Nucleo investigativo di Vibo Valentia, il Servizio centrale operativo della Polizia e le Squadre mobili di due province, la Guardia di finanza.
Servono ora i riscontri al loro narrato, serve che coloro che in un modo o nell’altro sono stati nel tempo vittime di quel sistema criminale abbandonino ogni reticenza, ogni pur comprensibile paura, e collaborino con gli inquirenti, offrendo il proprio contributo per voltare definitivamente pagina. Perché – diceva Borsellino – la paura è un diritto, il coraggio è un dovere.
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