’Ndrangheta, celle come call center: i contatti di boss e picciotti dal carcere, per il boss di Tropea 4700 telefonate
L’operazione Call Me della Dda di Catanzaro conferma l’allarme per il fenomeno dei telefoni negli istituti penitenziari: in un triennio sequestrati quasi 5mila dispositivi. Linee intasate per carpire le dichiarazioni dei nuovi pentiti

Le celle dei detenuti trasformate in call center, tanto alto era il volume di contatti con l’esterno. Migliaia di connessioni per mantenere il controllo del territorio a Tropea e gestire le casse del clan La Rosa. Il fenomeno preoccupa: «Nel triennio 2022-2024 sono stati sequestrati dalla Polizia Penitenziaria, nelle carceri italiane, circa 5.000 telefonini». Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria, segnala il numero preciso: 4.931 e aggiunge che «servono fatti concreti: non possiamo più permetterci che episodi di questo tipo diventino la norma».
L’inchiesta Call Me della Dda di Catanzaro, guidata dal procuratore Salvatore Curcio, ha evidenziato le dimensioni del fenomeno: i cellulari in carcere hanno permesso alla cosca La Rosa di Tropea di continuare a far sentire la propria voce sul territorio anche mentre il suo capo Antonio era detenuto. Curcio ha parlato di 30mila contatti registrati dalle celle e, in una circostanza, di 2mila connessioni con l’esterno in una sola settimana, quasi 300 al giorno. «La sicurezza degli operatori, dei detenuti e dell’intera comunità è a rischio», commenta Capece.
Le carte dell’inchiesta ricostruiscono i contatti in corso, per mesi, dalle celle al mondo esterno. Attività degne di un call center.
I due telefoni recapitati in carcere a Luigi Federici gli servivano per contattare i genitori e la fidanzata. I primi li avrebbe raggiunti 495 volte per informarsi di ciò che stava accadendo fuori dal carcere. Federici era preoccupato. Gli era giunta voce che due uomini dei clan del Vibonese avevano deciso di collaborare con la giustizia: voleva sapere se fosse vero che Michele Camillò e Antonio “Sapitutto” Cannatà si erano pentiti.
Lo scopo, per i magistrati della Dda di Catanzaro, era quello di «minimizzare le conseguenze negative di eventuali dichiarazioni» dei due collaboratori di giustizia, per «screditarli» e «minarne la credibilità». Altre 1426 volte, invece, l’uomo arrestato nell’operazione Rinascita Scott (e che la Dda di Catanzaro ritiene vicino alle ’ndrine di Vibo Valentia) avrebbe sentito la propria fidanzata.
Francesco La Rosa, fratello del boss Antonio, nel carcere di Siracusa utilizzava sei telefoni e altrettante schede per sentire la compagna e la madre. Avrebbe usato i cellulari per quasi 900 volte: attività più modesta rispetto a quella di Federici ma comunque rivolta – è l’ipotesi dell’accusa – a veicolare «messaggi e istruzioni circa la prosecuzione» della sua attività criminale «all’esterno dell’istituto carcerario»: quei messaggi sarebbero serviti a mantenere il «predominio sul territorio della sua persona e della cosca La Rosa, di cui era al vertice».
A Siracusa c’era anche Damiano Fabiano, altro detenuto calabrese: aveva a disposizione sei dispositivi che gli erano stati recapitati illegalmente all’interno dell’istituto carcerario e due utenze intestate a cittadini stranieri. I cellulari lavoravano a pieno regime: tra Fabiano e sua moglie sarebbero stati registrati più di 21mila contatti dall’8 febbraio al 13 agosto 2021, circa un centinaio al giorno.
Sono migliaia anche i contatti telefonici registrati tra Antonio La Rosa, considerato il capo del clan di Tropea, e i suoi familiari. Anche La Rosa era finito in carcere in occasione della maxi operazione Rinascita Scott. Il 21 maggio 2021 nella sua cella viene trovato un telefono che – secondo quanto emergerebbe dall’inchiesta – avrebbe effettuato oltre 4700 telefonate. Linea caldissima, poi interrotta dopo la perquisizione. Le conversazioni tra La Rosa e i suoi parenti avrebbero riguardato la gestione della cosca, la riscossione del denaro, il sostentamento della famiglia e i pagamenti dovuti ai difensori. Le telefonate servono a far arrivare ordini e, per gli investigatori, a ricostruire la nuova linea di comando nel clan.
I magistrati antimafia dedicano un capitolo alla gestione del denaro del clan, che passa attraverso le scelte del boss anche quando questi si trova in carcere. Le indagini evidenziano che una delle indagate, Tomasina Certo, avrebbe gestito la contabilità del denaro o a disposizione del gruppo, «ricevendo elargizioni di denaro e beni, non altrimenti giustificabili se non per la “riverenza” (cioè il riconoscimento del ruolo egemone] verso la famiglia La Rosa e quindi la moglie del boss detenuto». I due si sentono abbandonati ma «pur a fronte delle difficoltà (…) vengono segnalate spese di rilievo, come la playstation del valore di 400 euro in regalo alla nipotina». «Una spesa – appunta il gip distrettuale – che lascia stupefatto Antonio in carcere».