‘Ndrangheta, inchiesta Clean money: dal panificio sequestrato a Mileto agli affari tra vibonesi e catanzaresi
Agli arresti domiciliari finisce Fortunato Mesiano, già sotto processo in Maestrale-Carthago, mentre lo storico boss di Pontegrande richiama nelle intercettazioni le figure di Luigi Mancuso, Agostino Papaianni e Giuseppe Accorinti
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Un panificio sequestrato in via preventiva a Mileto, una presunta associazione a delinquere dedita anche alle truffe, un indagato raggiunto da misura cautelare agli arresti domiciliari ma soprattutto il riemergere di vecchi rapporti tra la ‘ndrangheta del Vibonese e quella operante nella città di Catanzaro. C’è anche questo nell’operazione “Clean money” che mira a far luce sulla ripresa delle attività criminali ad opera di personaggi già facenti parte dello storico clan dei Gaglianesi, consorteria fondata sul finire degli anni ‘80 dal boss Girolamo Costanzo (che da tempo sta scontando l’ergastolo). Il panificio sequestrato, su disposizione del gip distrettuale Gilda Romano, è quello dei fratelli Mesiano ubicato in via Verona a Calabrò, frazione del comune di Mileto. Ad essere raggiunto da ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari, con obbligo di indossare il braccialetto elettronico, è Fortunato Mesiano, 51 anni, di Mileto, residente a Biassono (provincia di Monza), che già si trova a giudizio (a piede libero, avendo il Riesame annullato l’ordinanza in carcere) nell’ambito del maxiprocesso Maestrale-Carthago.
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Per Fortunato Mesiano il reato contestato nell’operazione “Clean money” è quello di associazione a delinquere finalizzata alle truffe, con l’aggravante della finalità mafiosa in quanto i proventi dell’attività delittuosa sarebbero andati ad agevolare il clan dei Gaglianesi di Catanzaro. In particolare, Fortunato Mesiano viene indicato come un “partecipe dell’associazione”, coadiuvando Michele Maccherone, 72 anni, di Brusaporto (Bg, finito ai domiciliari) nell’amministrazione di un supermercato a Pogliano Milanese appartenente alla società “Alipadania srl”. In tale veste, Fortunato Mesiano avrebbe preso parte alla commissione di diverse truffe rapportandosi anche direttamente con Pietro Procopio (70 anni, di Catanzaro, finito in carcere), Giuseppe Rijitano (59 anni, di Catanzaro, finito ai domiciliari) e Giuseppe Procopio (43 anni, figlio di Pietro, residente Simeri Crichi, finito ai domiciliari), partecipando alla gestione contabile della società. La merce ordinata e non pagata (vini, acqua, latticini e altri generi alimentari per migliaia di euro), provento delle truffe, sarebbe finita a Catanzaro nei magazzini delle società gestite da Pietro Procopio. Il tutto – e da qui la contestazione dell’aggravante mafiosa – al fine di “agevolare il clan di Gagliano, considerato il ruolo apicale assunto da Pietro Procopio che destina parte dei suoi guadagni al mantenimento dei carcerati”.
Per Fortunato Mesiano anche la contestazione del reato di ricettazione, avendo impiegato – secondo l’accusa – i beni proventi delle truffe (generi alimentari vari) nell’attività imprenditoriale denominata “Panificio Fratelli Mesiano di Mesiano Pasquale” con sede legale in via Verona n. 12 nella frazione Calabrò di Mileto.
Fortunato Mesiano e l’inchiesta Maestrale
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Fortunato Mesiano si trova già sotto processo dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo, unitamente ai fratelli – il più noto è Franco Mesiano, che ha scontato in via definitiva la pena per l’omicidio del bimbo americano Nicolas Green – nell’ambito dell’operazione Maestrale-Carthago. In particolare risponde dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia del reato di associazione mafiosa in quanto accusato sia di essere tra i “promotori e organizzatori” del locale di ‘ndrangheta di Mileto “storicamente legato al 57enne Pasquale Pititto di San Giovanni di Mileto”. Per Fortunato Mesiano, nell’ambito del maxiprocesso Maestrale-Carthago, anche l’accusa di aver commesso estorsioni in prima persona, partecipando poi alla spartizione dei proventi per conto della ‘ndrina di appartenenza. Sempre Fortunato Mesiano – ad avviso della Dda – avrebbe intrattenuto rapporti con altre cosche come i Bonavota di Sant’Onofrio, il clan dei Piscopisani e l’articolazione brianzola del sodalizio miletese di Mileto guidata da Rocco Cristello. Nel periodo più recente si sarebbe rapportato anche con Michele Galati.
Clean money e il clan Mancuso
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L’inchiesta “Clean money” contiene però anche alcuni passaggi che riportano al clan Mancuso ed alla latitanza di Agostino Papaianni, 73 anni, di Coccorino di Joppolo, condannato a 20 anni di reclusione in primo grado nel maxiprocesso Rinascita Scott e ritenuto un fedelissimo del boss Luigi Mancuso. Agostino Papaianni è stato arrestato il 15 giugno 2021 proprio a Catanzaro (quartiere Janò) dopo essere sfuggito al blitz del 19 dicembre 2019 nell’ambito dell’operazione Rinascita Scott. E’ Vincenzo Catanzariti, ritenuto lo storico boss del quartiere Pontegrande di Catanzaro, nonché contrapposto negli anni al clan dei Gaglianesi, a ricordare in un’intercettazione – richiamata dal gip – che “quando il latitante Agostino Papaianni era stato arrestato a Catanzaro, lui non sapeva nulla della sua presenza lì”. Vincenzo Catanzariti (che non figura tra gli indagati dell’inchiesta), ad avviso del gip, è un “soggetto che conosce le dinamiche criminali” e nelle intercettazioni afferma che “la ‘ndrangheta non deve dare conto a nessuno in quanto lui appartiene alla consorteria e se deve uccidere lo farà. Addirittura – rimarca il gip – anche Luigi Mancuso, boss delle consorterie vibonesi, gli aveva riferito che lui, Catanzariti, era temuto e lo aveva invitato a scontrarsi direttamente con il boss Costanzo”.
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Lo stesso Girolamo Costanzo, boss dei Gaglianesi (non indagato nell’inchiesta Clean money), che sta scontando l’ergastolo quale mandante dell’omicidio a Catanzaro, il 17 gennaio 1990, di Pietro Cosimo, ritenuto un personaggio scomodo nell’ambito della mala catanzarese. Costanzo (ed anche qui ritornano i vibonesi) avrebbe commissionato il delitto di Pietro Cosimo a Nazzareno Prostamo e Pasquale Pititto di San Giovanni di Mileto (pure loro condannati per tale omicidio) dietro il pagamento di cinque milioni di lire, facendo anche leva sul mancato pagamento di una fornitura di eroina da parte di Pietro Cosimo nei confronti dei due esponenti di San Giovanni di Mileto.
Tornando a Vincenzo Catanzariti, nelle intercettazioni lo stesso afferma di aver conosciuto nel corso della sua carriera criminale, oltre al boss di Limbadi Luigi Mancuso, anche Giuseppe Accorinti, il capobastone di Zungri, rivelando un particolare del tutto inedito secondo il quale Peppone Accorinti sarebbe stato all’epoca “in lite con Muto dell’alto tirreno cosentino”, con riferimento ai Muto di Cetraro. Tanti anni sono passati da allora, ma il legame tra vibonesi e catanzaresi sarebbe rimasto più solido che mai.
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