‘Ndrangheta: confermato carcere duro per presunto boss vibonese Nicola Tripodi
Respinto dalla Cassazione il ricorso del 69enne ritenuto a capo dell’omonimo clan di Portosalvo e Vibo Marina
Resta al carcere duro (regime previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario) Nicola Tripodi, 69 anni, ritenuto il boss dell’omonimo clan di Portosalvo, frazione di Vibo Valentia. La settima sezione della Cassazione ha infatti dichiarato “inammissibile” il ricorso di Nicola Tripodi, condannato ad 8 anni di reclusione in appello, al termine del processo nato dall’operazione antimafia denominata “Lybra” del maggio 2013, per aver promosso e diretto l’omonima consorteria mafiosa attiva oltre 30 anni nella zona delle Marinate di Vibo e, nell’ultimo decennio, anche a Roma dove sarebbe riuscita ad infiltrarsi in alcuni appalti pubblici stringendo accordi con ambienti politici romani e massonici.
Il ricorso del presunto boss (in foto) era stato presentato avverso l’ordinanza con la quale il 12 novembre 2015 il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha confermato il provvedimento del Ministero della Giustizia che in data 18 settembre 2015 aveva deciso di applicare il regime restrittivo del carcere duro per Nicola Tripodi, proposto dal pm della Dda di Catanzaro Pierpaolo Bruni (in foto in basso) che ha portato a termine l’inchiesta Lybra iniziata dai carabinieri della Stazione di Vibo Valentia, diretti all’epoca dal luogotenente Nazzareno Lopreiato, con il nome di “Atlantide”.
Per la Suprema Corte nel caso di specie vi sono gravi ed attuali motivi di ordine e sicurezza pubblica che giustificano la sospensione delle regole del regime detentivo ordinario. Nicola Tripodi è stato infatti condannato per aver ricoperto il ruolo apicale di capo e promotore dell’omonima organizzazione criminale della ‘ndrangheta, dedita alle estorsioni, all’usura ed al condizionamento dei lavori pubblici. Recenti “informative degli apparati investigativi centrali e locali”, ad avviso dei giudici della Cassazione, fanno inoltre ritenere attuale l’esistenza di collegamenti tra “la famiglia mafiosa dei Tripodi e le associazioni criminali attive in altri contesti” territoriali quali le “famiglie” Novella e Gallace a Milano, ma originarie di Guardavalle, e la famiglia Scriva attiva a Roma.
Nicola Tripodi, a nome della propria consorteria, avrebbe inoltre partecipato – sottolinea la Suprema Corte – a riunioni mafiose tenutesi negli anni 2008-2010 e alle quali avevano partecipato pure esponenti della famiglia Mancuso.
Per la Cassazione, il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha dato conto della “perdurante pericolosità sociale del detenuto e della sua capacità di riallacciare contatti con l’organizzazione di appartenenza e di impartire, anche attraverso i colloqui con i familiari, direttive ai sodali ancora liberi in ragione della posizione dirigenziale già rivestita”.
Per tali motivi il ricorso di Nicola Tripodi è stato dichiarato inammissibile con la conseguente condanna del ricorrente anche al pagamento delle spese processuali.