Processo Maestrale: la ‘ndrangheta a Mileto, tra scontri e alleanze, nella deposizione del colonnello Palmieri
La faida tra i Mesiano e i Corigliano, il ruolo dei Galati con il sostegno del boss Accorinti di Zungri, la nascita del “locale”, l’importanza della frazione San Giovanni e il ruolo giocato dai Mancuso
La ‘ndrangheta a Mileto e i collegamenti con gli altri clan nella deposizione – nel maxiprocesso nato dalle operazioni Maestrale-Carthago, Olimpo e Imperium – del tenente colonnello Valerio Palmieri, attualmente comandante del Reparto territoriale dei carabinieri di Vallo della Lucania, ma dal 2015 al 2020 comandante del Nucleo Investigativo di Vibo Valentia. Dinanzi al Tribunale collegiale di Vibo Valentia, il teste ha spiegato che l’attività investigativa sulla ‘ndrangheta di Mileto è iniziata nel 2015, proprio con il suo arrivo a Vibo Valentia, con alcuni segmenti di indagine poi confluiti anche nell’inchiesta Rinascita Scott. Per il resto, alcuni procedimenti istruiti inizialmente dalla Procura di Vibo – omicidi nel 2013 a Mileto di Giuseppe Mesiano e risposta con l’omicidio di Angelo Corigliano – sono finiti nell’attività di indagine denominata Maestrale, nata nel 2015. In tale contesto è emersa la figura di Michele Galati, 45 anni, di Paravati figlio dell’ergastolano Salvatore Galati (condannato per omicidio nella storica operazione “Tirreno” della Dda di Reggio Calabria). “E’ stato il boss di Zungri, Giuseppe Accorinti – che faceva anche parte del “Crimine” distaccato del Vibonese con al vertice Luigi Mancuso di Limbadi – a cercare di accreditare Michele Galati a livello criminale in quanto era stato messo ad occuparsi della ripartizione dei proventi derivantidalla gestione dell’appalto dei rifiuti, in particolare dei soldi che lui aveva preso dalla ditta Muraca tra Comparni, San Giovanni e Calabrò. La ripartizione doveva avvenire tra tutte le articolazioni della ‘ndrangheta del territorio – ha spiegato il colonnello Palmieri – interessate direttamente da questa entrata economica non solo a Mileto, ma anche in altri paesi come Briatico”. Un’altra parte dei soldi sarebbe stata presa, invece, da Vincenzo Corso (altro imputato del processo Maestrale-Carthago), che ha sposato una figlia di Giuseppe Mesiano, e anche qui si sarebbe posto il problema della ripartizione del denaro frutto di estorsioni. “C’erano stati gli arresti per gli omicidi Mesiano e Corigliano – ha dichiarato il colonnello Palmieri – e quindi dovevano essere dati i soldi per il sostentamento dei carcerati”.
Lo scontro a Mileto
Per l’omicidio di Giuseppe Mesiano (avvenuto il 17 luglio 2013 a Mileto), inizialmente gli inquirenti pensano si tratti di uno scontro tra il clan di Calabrò di Mileto (i Mesiano, appunto) e la “famiglia” Tavella di San Giovanni di Mileto. “Questo perché – ha spiegato il colonnello Palmieri – Fortunato Mesiano si trovava all’epoca detenuto in quanto il 31 dicembre del 2012 si era reso protagonista di un tentato omicidio ai danni di Michele Tavella, per cui si pensava inizialmente che gli episodi fossero inseriti in un attrito ancorato anche a fatti di sangue precedenti, risalenti al 2006. In realtà il 19 agosto del 2013, quindi un mese dopo l’omicidio di Giuseppe Mesiano, viene ucciso un ragazzo dell’83, Angelo Antonio Corigliano. Ebbene, questo episodio, insieme alle prime acquisizioni investigative, ha consentito di metterli in relazione, per cui la pista che portava nella direzione delle dinamiche criminali di assestamento che riguardavano i Tavella perde sostanza e si va invece nella direzione di un botta e risposta con riferimento all’eliminazione di Mesiano Giuseppe seguito come risposta dall’omicidio di Angelo Antonio Corigliano”. Gli investigatori si imbattono quindi in un’intercettazione definita “fondamentale” ed ottenuta attraverso il monitoraggio di Michele Galati. “Scopriamo così – ha svelato il teste – che l’omicidio di Giuseppe Mesiano è stato commesso il 17 luglio 2013 a Mileto ad opera di Angelo Corigliano e del padre Giuseppe Corigliano”. Si tratta dello stesso Giuseppe Corigliano che il 2 luglio dello scorso anno è stato condannato per il delitto Mesiano alla pena dell’ergastolo dalla Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro al termine dell’operazione della Dda denominata Miletos.
La rottura tra i Corigliano e i Mesiano
Ma cosa ha portato alla rottura dei rapporti tra le famiglie Mesiano e Corigliano? Il colonnello Palmieri chiama in causa Francesco Mesiano, 52 anni, già condannato per l’omicidio del piccolo Nicolas Green, imputato nel processo Maestrale-Carthago ma assolto in Assise per l’omicidio Corigliano (con l’accusa che aveva invece chiesto per lui la condanna all’ergastolo). “I Corigliano erano pressati da Franco Mesiano, figlio di Giuseppe Mesiano, attraverso l’invasione di terreni con animali, ma soprattutto pressavano – ha raccontato il colonnello Palmieri – poiché Angelo Corigliano si era rifiutato di commettere dei danneggiamenti ai danni di una società che gestiva dei supermercati. Società che aveva interrotto la fornitura del pane prodotto dal panificio dei Mesiano. Queste pressioni sono culminate nella notte del 17 di luglio del 2013 con l’incendio della porta di ingresso dell’abitazione dei Corigliano e di una moto-ape che era di proprietà di Giuseppe Corigliano. Il pomeriggio dello stesso giorno – 17 luglio 2013 – viene ucciso Giuseppe Mesiano. A distanza di un mese invece, con modalità mafiose, viene ucciso Angelo Antonio Corigliano”.
La struttura della ‘ndrangheta a Mileto
L’attività investigativa ha messo quindi in luce che “in quel periodo il capo della struttura di ‘ndrangheta di Mileto era Pasquale Pititto, di San Giovanni di Mileto, mentre Giuseppe Mesiano aveva comunque una dote di ‘ndrangheta altissima e c’erano dei riferimenti territoriali dei clan su Mileto e il relativo quartiere Calabrò, così come nelle frazioni di San Giovanni, Comparni e Paravati. Sul territorio comunale di Mileto – ha spiegato il teste Palmieri – esiste quindi un locale di ‘ndrangheta con le relative doti per gli affiliati della “società maggiore” e della “società minore”, quella delegata ai compiti meramente esecutivi. Il vertice del locale di ‘ndrangheta stava però nella frazione di San Giovanni e sino al 2017, anno dell’operazione Stammer, è stato detenuto da Pasquale Pititto, per come ci hanno riferito anche i collaboratori di giustizia Andrea Mantella, Angiolino Sevello e Michele Iannello”. Il potere a Pasquale Pititto – condannato all’ergastolo per omicidi commessi a Laureana di Borrello su mandato dei Mancuso, ma in un dato lasso temporale finito agli arresti domiciliari a San Giovanni per motivi di salute (si trova sulla sedia a rotelle dopo essere stato ferito in un agguato negli anni ’90) – gli sarebbe stato in particolare conferito dal boss di Limbadi, Giuseppe Mancuso, alias ‘Mbrogghja, figura apicale all’epoca del “Crimine” della ‘ndrangheta vibonese (non imputato nel processo Maestrale). Il teste Palmieri ha così ricordato un’intercettazione importante per far capire gli assetti criminali del territorio laddove proprio Pasquale Pititto (stando ad un’intercettazione in cui a parlare era Domenico Mancuso cl ’75) si era opposto alla richiesta di soldi proveniente dal boss Francesco Mancuso (detto “Ciccio Tabacco”, fratello di Giuseppe) per le estorsioni praticate alle ditte impegnate nei lavori nel tratto autostradale di Mileto in quanto in assenza di Giuseppe Mancuso (all’epoca detenuto) gli sarebbe succeduto il figlio Domenico. “Non la prendere come un’offesa – avrebbe detto Pasquale Pititto a Francesco Mancuso – ma a me qui mi ha messo Peppe e solo a lui devo dare conto, in sua assenza c’è il figlio Domenico”.
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