‘Ndrangheta, nessun permesso per il collaboratore di Vibo Marina Giuseppe Comito: «Pentito da poco, ravvedimento non ancora certo»
La Cassazione conferma la decisione del Tribunale di Sorveglianza ritenendo prematura una sua scarcerazione dopo la condanna a 30 anni per concorso nell’omicidio di Francesco Scrugli e nel ferimento di Rosario Battaglia e Raffaele Moscato
Nessun permesso premio, nessuna liberazione anticipata o scarcerazione per il collaboratore di giustizia, Giuseppe Comito, 50 anni, di Vibo Marina, alias “Peppe u Canna”. È quanto deciso dalla quinta sezione penale della Cassazione che ha confermato la decisione del Tribunale di Sorveglianza di Roma rigettando il ricorso di Giuseppe Comito che dal novembre del 2019 ha deciso di collaborare con la Dda di Catanzaro. Comito sta scontando attualmente nel carcere di Alessandria (fine pena il 17 marzo 2040) una condanna rimediata in via definitiva a 30 anni di reclusione al termine del processo nato dall’operazione antimafia denominata “Gringia” per il reato di concorso nell’omicidio di Francesco Scrugli, ucciso nel quartiere Pennello di Vibo Marina il 21 marzo del 2012 dal clan Patania di Stefanaconi, e per il ferimento nella stessa occasione di Rosario Battaglia e Raffaele Moscato.
Secondo il Tribunale di Sorveglianza, nel caso di Giuseppe Comito è necessario un ulteriore periodo di osservazione in carcere alla luce dell’avvio del percorso collaborativo, ma anche “dell’estrema gravità dei reati da lui commessi e di alcuni dubbi sull’effettiva rielaborazione critica del suo ingresso in contesti di ‘ndrangheta, rispetto al quale ha reso dichiarazioni non prive di opacità”.
Per la Cassazione e il Tribunale di Sorveglianza, la regolarità della condotta tenuta da Giuseppe Comito nel corso della detenzione, “la correttezza mostrata nello svolgimento del lavoro inframurario, l’interesse manifestato negli studi liceali avviati in carcere e le parole di pentimento pronunciate nel corso dell’osservazione della personalità non possono ritenersi sufficienti a integrare il requisito del ravvedimento” previsto dalla legge. Ciò in considerazione della “gravità dei suoi trascorsi criminali e del fatto che il «ravvedimento» presuppone – ricordano i giudici – un mutamento profondo della personalità, nella specie non ancora accertato in ragione di una scelta collaborativa ancora troppo recente e della incongrua ricostruzione dell’inizio della militanza nella ‘ndrangheta, della mancanza di un contatto con le vittime o dell’inizio di percorsi di giustizia riparativa”.
La Cassazione sottolinea che il percorso detentivo fin qui compiuto da Giuseppe Comito non appare ancora sufficiente a consentirgli l’accesso al beneficio extramurario. “La spiegazione offerta da Comito in merito all’inizio della sua militanza all’interno di un sodalizio mafioso non è appagante – sostengono la Suprema Corte e i giudici del Tribunale di Sorveglianza – in quanto oggettivamente caratterizzata da una rappresentazione quasi accidentale del suo ingresso nel gruppo criminale, ricondotto riduttivamente a «un momento di grave difficoltà economica»; rappresentazione, in realtà, smentita da un livello di rilevante intraneità alla compagine ‘ndranghetistica resa manifesta dalla elevata qualità delle informazioni oggetto del suo contributo collaborativo. Un profilo, questo, che ha condotto il Tribunale a ritenere non ancora raggiunto un rassicurante riscontro circa la solidità del percorso intramurario compiuto”. Giuseppe Comito resta dunque in carcere. Le sue dichiarazioni sono confluite, da ultimo, nelle operazioni antimafia denominate Olimpo e Maestrale-Carthago.
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