lunedì,Gennaio 6 2025

‘Ndrangheta: inchiesta Talitha Kumi, condannati in Cassazione Domenico Bonavota e Giuseppe Barbieri

Gli imputati di Sant’Onofrio erano accusati del reato di estorsione e di aver tagliato mille ulivi dopo il rifiuto di una cooperativa di cedere gratis l’olio

‘Ndrangheta: inchiesta Talitha Kumi, condannati in Cassazione Domenico Bonavota e Giuseppe Barbieri
Domenico Bonavota

Arriva a conclusione il procedimento giudiziario nato dall’operazione antimafia denominata “Talitha Kumi”, dal nome di una cooperativa agricola Talità Kum, con sede a Stefanaconi, presa di mira dai clan. La seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha infatti condannato in via definitiva a 8 anni Domenico Bonavota, 46 anni, ritenuto a capo dell’omonimo clan di Sant’Onofrio, mentre 7 anni e 3 mesi di reclusione è la condanna per Giuseppe Barbieri, di 51 anni, pure lui di Sant’Onofrio. I ricorsi dei due imputati sono stati dichiarati inammissibili dalla Suprema Corte che ha così confermato la sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro del 19 marzo scorso, mentre la sentenza di primo grado da parte del Tribunale collegiale di Vibo Valentia risale al 24 luglio 2020. Gli imputati, quale pena accessoria, sono stati invece condannati all’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Le accuse confermate

Estorsioni e danneggiamenti, aggravati dal metodo mafioso, le contestazioni mosse agli imputati, accusati di aver tagliato nel 2011 mille alberi di ulivo di proprietà di un socio della cooperativa dinanzi al suo rifiuto di cedere gratis al clan Bonavota 500 litri di olio all’anno. Il socio della cooperativa, Pietro Lopreiato, sarebbe stato poi costretto a cedere un terreno al clan. Della cooperativa, oltre a Pietro Lopreiato, principale vittima delle pretese dei clan, facevano parte anche due sacerdoti: don Salvatore Santaguida, già parroco di Stefanaconi, e don Domenico Muscari, parroco di Paravati ed all’epoca dei fatti di San Nicola da Crissa. La cooperativa aveva fra le altre finalità anche la gestione dei terreni confiscati alla mafia ed era nata con un progetto finanziato dalla Cei per lo sviluppo dell’imprenditoria giovanile nel meridione.

Le motivazioni della Cassazione

Giuseppe Barbieri

Ad incastrare gli imputati, le conversazioni tra presenti «effettuate con un telefono fornito al Lopreiato dalla polizia giudiziaria e da lui consapevolmente effettuate, di talchè – sottolinea la Cassazione – trattasi di prova documentale, utilizzabile come tale in dibattimento». È stato così valorizzato dai giudici “l’inequivoco contenuto delle conversazioni registrate dal Lopreiato, dalla quali emerge che il mandante delle condotte estorsive si individua in Domenico Bonavota”. Regge anche l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso, desunto dalla «elevata caratura criminale del Bonavota, che era detenuto per il reato di associazione mafiosa già nel lontano 2008, circostanza questa ben nota nella comunità di riferimento, per cui l’evocazione del suo nome da parte del latore della richiesta estorsiva ha avuto una elevata valenza intimidatoria, come dimostra anche la circostanza per cui la persona offesa, pur conoscendoli, avesse omesso di indicare gli autori dell’illecita richiesta».

La Cassazione sottolinea poi che nello stesso senso hanno ritenuto i giudici di secondo grado che deponessero «le modalità di consumazione dei danneggiamenti, che avevano avuto ad oggetto plurimi beni, così da suggerire l’azione collettiva di un gruppo organizzato». Quanto alla concreta condotta tenuta da Giuseppe Barbieri (fratello del collaboratore di giustizia Onofrio Barbieri), i giudici di secondo grado hanno valorizzato la «carica intimidatoria delle sue richieste e l’evocazione della figura criminale di Domenico Bonavota, del cui messaggio era stato latore presso il Lopreiato. Del resto, la minaccia può ben essere implicita – conclude la Cassazione – specie quando la richiesta proviene sia pure indirettamente da soggetto di cui è noto l’elevato spessore delinquenziale».
Da ricordare che in primo grado dalla vicenda giudiziaria era stato assolto Domenico Cugliari, 65 anni, detto “Micu i Mela”, zio di Domenico Bonavota (la Dda aveva chiesto per lui in primo grado 8 anni e 9 mesi). L’assoluzione era poi divenuta per lui definitiva.

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