“Romanzo criminale” a Vibo, i genitori di Michele Penna in aula: “Lo Stato ci ha abbandonati”
Domenico Penna e Maria Cristina Arcella, padre e madre dell’assicuratore e segretario cittadino dell'Udc di Stefanaconi vittima di lupara bianca, sono stati sentiti nell’ambito del processo al clan Patania. I due testi salvano solo le figure del parroco don Santaguida e del maresciallo Cannizzaro, ma non il Comando provinciale dei carabinieri dell’epoca
«Solo il maresciallo Sebastiano Cannizzaro (foto in basso) ci ha aiutati per cercare il corpo di mio figlio. Tutti gli altri, compresi il colonnello dei carabinieri Daniele Scardecchia e il maggiore Vittorio Carrara, ci hanno invece voltato le spalle, non mandando rinforzi per cercare il corpo di mio figlio. Il 19 marzo del 2012 ho così inviato una lettera aperta a tutti i giornali, a tutti i ministri dell’epoca, al prefetto di Vibo e all’associazione Libera per denunciare tale stato di inerzia».
È questa la testimonianza di Domenico Penna, padre di Michele Penna, l’assicuratore 30enne di Stefanaconi vittima di lupara bianca nel 2007, sentito insieme alla moglie Maria Cristina Arcella questa mattina nell’ambito del procedimento “Romanzo criminale” contro il clan Patania di Stefanaconi in corso a Vibo Valentia.
«È stata mia moglie – ha riferito ancora Penna – a recarsi in un reparto speciale dell’Arma dei carabinieri a Livorno per chiedere l’aiuto di alcuni cani addestrati alla ricerca dei corpi della cui esistenza neppure il capitano del Nucleo investigativo di Vibo, Giovanni Migliavacca, sapeva nulla. Tali cani hanno però svolto ricerche solo per tre giorni poiché, come ci dicevano i carabinieri, il loro utilizzo aveva un costo elevato: 800 euro al giorno. Due giorni di ricerche sono state quindi pagate da noi personalmente, con tanto di fatture che ho poi mostrato al pm della Dda di Catanzaro Pierpaolo Bruni, il quale non sapeva nulla di tale circostanza ed ha dovuto quindi prenderne atto».
Ancora, Domenico Penna (in foto con la moglie), nel corso della sua testimonianza, ha riferito di essere andato «più volte dal colonnello Scardecchia, perché ci sentivamo abbandonati dai carabinieri nelle ricerche. Ci siamo poi recati una decina di volte anche dal maggiore Carrara, il quale però non ci ha mai ricevuto, dicendoci sempre di essere occupato. Ci siamo così rivolti ad una televisione locale per denunciare questo stato d’inerzia nelle ricerche. Abbiamo poi saputo, prima della messa in onda del servizio in tv, che il colonnello Scardecchia era venuto a conoscenza di tale circostanza e, dopo sei mesi che lo cercavamo invano, finalmente ci ha chiamati al telefono dicendoci che le ricerche sarebbero andate avanti e di avere fiducia nelle istituzioni».
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Sia Domenico Penna che sua moglie Maria Cristina Arcella, rispondendo a precisa domanda, hanno poi sottolineato come don Salvatore Santaguida, parroco di Stefanaconi dal 1994 al 2012, sia «sempre stato per la comunità parrocchiale una guida preziosa, prendendo parte in prima persona con il gruppo Scout agli scavi per la ricerca del corpo di nostro figlio. Le ricerche, però, sono andate avanti con impegno solo sin quando il maresciallo Cannizzaro non è stato improvvisamente esautorato dalla Stazione di Sant’Onofrio per volontà del Comando provinciale».
Nella sua testimonianza, poi, Maria Cristina Arcella, confermando quanto affermato dal marito, ha poi evidenziato di aver appurato da «una voce di paese» che la collaboratrice di giustizia Loredana Patania, moglie di Giuseppe Matina, alias “Gringia”, ucciso il 20 febbraio 2012 a Stefanaconi, «poteva essere una delle persone a conoscenza del luogo in cui era stato seppellito mio figlio Michele (in foto). Abbiamo anche promesso una ricompensa – ha detto Arcella – a Loredana Patania, ma lei si è presa gioco del nostro dolore fornendoci addirittura delle indicazioni sbagliate e facendoci perdere solo tempo nelle ricerche e negli scavi con le ruspe che dirigeva personalmente mio marito insieme al maresciallo Cannizzaro, mentre tutti gli altri ci hanno abbandonato».