Le pressioni su Emanuele Mancuso dell’ex compagna Nensy Chimirri per fargli interrompere la collaborazione: le motivazioni della Cassazione
La Suprema Corte ha parzialmente accolto il ricorso della Procura generale contro il ridimensionamento della condanna della donna da 6 anni a 10 mesi. I consigli per rendere inattendibili le dichiarazioni: «Dettate dalla tossicomania». Le armi di Pugliese per favorire il clan
È «ipotizzabile», secondo la Corte di Cassazione il reato di induzione a non rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria, contestato a Nensy Vera Chimirri, ex compagna dell’unico pentito nato in seno alla famiglia Mancuso.
Il 21 maggio 2019 il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso non si presenta all’interrogatorio fissato. Non solo. Ritratta le dichiarazioni rese precedentemente. Secondo quanto ha sempre sostenuto la Dda di Catanzaro, dietro a questo tentennamento c’erano le pressioni dei familiari che, pur di indurlo a ritrattare, avrebbero usato violenza psichica, paventando anche la possibilità di non poter vedere la figlia appena nata. Dall’altro lato avrebbero tentato di convincerlo a non collaborare anche con offerte di denaro. Due le ipotesi di reato ravvisate fin dal primo grado: induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria e violenza privata. Un’operazione, quella della famiglia Mancuso, alla quale avrebbe partecipato anche l’allora compagna di Emanuele Mancuso, Nensy Vera Chimirri. I due avevano appena avuto una bambina, nata mentre il ragazzo si trovava in carcere.
Dal primo grado alla Cassazione
Dal procedimento che è scaturito in seguito a questa vicenda, Nensy Vera Chimirri ha scelto il rito abbreviato, venendo condannata a sei anni di reclusione per induzione a non rendere dichiarazioni, violenza privata e favoreggiamento, tutti reati aggravati dal metodo mafioso. Parte civile in questo procedimento è lo stesso Emanuele Mancuso.
In appello la condanna per Chimirri è stata parecchio ridimensionata: cade il favoreggiamento, cade l’induzione a non rendere dichiarazioni. Resta una violenza privata solo tentata, per quanto aggravata. La condanna passa da sei anni a 10 mesi.
A questa decisione si oppone la Procura generale che propone ricorso per Cassazione. La Suprema Corte accoglie in parte il ricorso e annulla con rinvio: si ritorna davanti alla Corte di appello di Catanzaro per quanto riguarda l’esclusione dell’induzione a non rendere dichiarazioni e la riqualificazione della violenza privata.
Induzione a non rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria
A differenza di quanto in sentenza dalla Corte d’Appello di Catanzaro, nel momento in cui subiva pressioni dai familiari, Mancuso non era semplicemente un collaboratore «chiamabile» a rendere dichiarazioni, ma era un collaboratore che il suo narrato lo aveva già espresso a partire da giugno 2018.
Secondo la Cassazione – che contesta la sentenza d’appello su questo punto – Emanuele Mancuso «soggetto destinatario delle condotte di minaccia e violenza», aveva «già reso dichiarazioni dinanzi all’autorità giudiziaria, avendo iniziato il suo percorso collaborativo nel giugno 2018 ed avendo già reso plurimi interrogatori».
I consigli per rendere inattendibili le dichiarazioni
E questo era un fatto noto a Chimirri «dal momento che le condotte contestate all’imputata si sono dipanate per mesi, in epoca concomitante con quella in cui Mancuso rendeva le dichiarazioni collaborative». Queste condotte dice la Cassazione, erano «volte ad indurre il Mancuso ad interrompere la collaborazione (e non a non iniziarla), con consigli strategici anche finalizzati a rendere le dichiarazioni già offerte all’autorità giudiziaria dal Mancuso non credibili o inattendibili». Tra i consigli che l’ex compagna suggeriva al neo collaboratore vi era quella di dichiarare che i verbali resi erano inattendibili per via della «tossicomania» di Mancuso.
Il reato di induzione a non rendere dichiarazioni all’autorità giudiziaria viene considerato «ipotizzabile» dalla Suprema Corte che rinvia la discussione sul punto a un nuovo processo d’appello, davanti a un nuovo collegio.
La sussistenza della violenza privata
Si torna in appello anche per quanto riguarda la violenza privata. Anche su questo punto viene accolto il ricorso della Procura Generale e della parte civile, difesa dall’avvocato Antonia Nicolini. Non convince la tesi, proposta dalla Corte d’Appello, secondo la quale «la scelta di abbandonare il percorso collaborativo sarebbe frutto di una scelta personale di Mancuso» anche perché queste considerazioni non tengono conto del fatto che «le minacce e pressioni effettivamente esercitate, ebbero come conseguenza l’abbandono, sia pure temporaneo, da parte di Mancuso stesso del percorso collaborativo ed il rifiuto di recarsi a rendere l’interrogatorio in data 21 maggio 2019». Inoltre, come fa notare la Procura generale, «appare illogico asserire, da un lato, che le condotte attuate dalla Chimirri erano idonee e dirette in modo non equivoco a coartare la volontà di Mancuso, e dall’altro affermare che l’abbandono del percorso collaborativo, anziché dipendere dalle condotte accertate poste in essere dalla Chimirri, fosse il frutto di una decisione autonoma di Emanuele Mancuso, avulsa e non dipendente dalle condotte vessatorie accertate».
Respinto il ricorso sul favoreggiamento
Per quanto riguarda il favoreggiamento, il ricorso proposto da accusa e parte civile è stato respinto poiché la latitanza di Giuseppe Salvatore Mancuso, fratello di Emanuele, secondo la Cassazione non è riconducibile alle scarne confidenze ottenute Nensy Chimirri e riferite ai Mancuso, ma «alla mera circostanza che Emanuele Mancuso aveva intrapreso la via della collaborazione, e che per ciò stesso, stesse riferendo agli inquirenti circostanze inerenti la cosca mafiosa famigliare».
La posizione di Francesco Paolo Pugliese
Anche Francesco Paolo Pugliese ha scelto il rito abbreviato. L’imputato è accusato di detenzione di armi clandestine, di aver portato in luogo pubblico un’arma comune da sparo e di ricettazione di armi. Reati commessi in concorso con Giuseppe Mancuso, fratello di Emanuele. In appello per tali delitti non è stata riconosciuta l’aggravante mafiosa e la condanna è stata rideterminata da sei anni a due anni di reclusione.
Anche in questo caso la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla Procura generale. La detenzione delle armi, a differenza di quanto sostiene la Corte d’appello, era improntata al mantenimento della sussistenza della consorteria Mancuso anche in vista dell’aggressione subita dal clan con il tentato omicidio di un soggetto vicino alla famiglia, Dominic Signoretta.