L’infanzia nelle strade di Sant’Onofrio, i piccoli furti e poi la scalata criminale con Domenico Bonavota: il racconto del killer pentito Fortuna
Parla in aula il collaboratore cresciuto all’ombra della cosca santonofrese: «A 15 anni rubavamo in casa degli anziani. Prima dei 24 anni non avrei mai pensato di commettere un omicidio»
L’infanzia per le strade di Sant’Onofrio, i furti, le armi da nascondere per conto dei più grandi, poi, a 24 anni, la svolta, gli omicidi, l’affiliazione e la scalata all’interno della cosca. Sempre accanto all’amico di gioventù, che oggi chiama in causa in un processo per omicidio.
È un lungo racconto quello che Francesco Fortuna fa davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro.
Nei piccoli paesi ci si conosce per strada, si cresce insieme senza porsi troppe domande.
«Siamo sempre stati molto amici, il paese di Sant’Onofrio è un paese piccolissimo, un paese di 1500 anime, diciamo con una sola piazza, con due bar, quindi diciamo la vita, dalla nascita si può dire che ci conosciamo, ecco». Con poche, semplici parole, Francesco Salvatore Fortuna, 44 anni, tratteggia quella è stata la sua infanzia e la sua amicizia con Domenico Bonavota. Quell’amico di gioventù è poi diventato un elemento importante in seno alla cosca che porta il suo nome. E Fortuna lo ha seguito mentre dai giochi passavano ai furtarelli, dai furtarelli alle truffe e dalle truffe alle gambizzazioni e agli omicidi. «Siamo cresciuti insieme ed eravamo sempre assieme», è il racconto, asciutto, di Francesco Fortuna.
Dall’infanzia ai delitti
Oggi Francesco Fortuna ha due condanne definitive per l’omicidio di Domenico Di Leo e per il delitto di Raffaele Cracolici. E attende di essere giudicato per l’omicidio di Domenico Belsito. Tutti e tre i delitti sono avvenuti nel 2004, quando Fortuna aveva 24 anni.
«Omicidi che lei ha realmente commesso?», chiede il pm Antonio De Bernardo riferendosi a Di Leo e Cracolici.
«Sì, sì, ho realmente commesso», risponde Francesco Fortuna, fresco collaboratore di giustizia, davanti alla Corte d’Assise di Catanzaro chiamata oggi a giudicare l’ex amico Domenico Bonavota – insieme a Salvatore Mantella e al collaboratore Onofrio Barbieri – quale mandante del delitto di Domenico Belsito.
La gioventù: dai furti alle armi da nascondere per conto di Pasquale Bonavota e Domenico Di Leo
Il contesto nel quale sono maturati i delitti, conferma, Fortuna, è quello della cosca Bonavota di Sant’Onofrio. Una cosca, dice il collaboratore, che nasce «sotto l’ideale ‘ndranghetistico» anche se, secondo Fortuna non segue la liturgia ‘ndranghetista in modo ortodosso: «… per lo meno da quello che so io da quando sono entrato io a far parte della cosca Bonavota non ha mai fatto parte per esempio del locale di Polsi». Una consorteria, la spiega Fortuna, «nel suo paese, che aveva le sue regole, ma che non faceva parte di quelle organizzazioni a livello di riconoscimento di ‘ndrangheta, ecco».
«Io nel tempo, negli anni sono entrato a far parte della cosca Bonavota, che diciamo, vi ripeto, ho frequentato da piccolissimo, ecco, io li conosco da sempre, ad entrare diciamo in queste dinamiche diciamo dopo i primi anni duemila, 2003 – 2004». Il punto di svolta è il 2004. Prima di allora, per esempio, «quando avevamo 16 anni mi pare, 15 anni, non mi ricordo più o meno quanto, per esempio io e Domenico Bonavota una volta rubammo in una casa per esempio, di alcuni anziani, ma eravamo, ripeto, dei ragazzini, ecco, quell’età. Poi magari negli anni a venire per esempio alcuni soggetti che erano più grandi di noi, come per esempio Pasquale Bonavota, Domenico Di Leo, ci davano qualche arma da nascondere, diciamo da occultare, ecco, questi erano in quel momento diciamo i reati di cui vi sto parlando, no?».
L’incontro con Andrea Mantella
Con le truffe, nei primi anni 2000, Fortuna e Bonavota intascano i primi soldi: «… pensavamo solo diciamo, se così si può dire, a guadagnare dei soldi e a vivere bene». Fortuna orbita nella cosca, riconosce che «facevo già parte in quel modo diciamo di quella struttura», tanto che viene portato al cospetto di boss come Damiano Vallelunga e Rocco Anello.
Nel 2004 avviene l’incontro con Andrea Mantella, oggi collaboratore di giustizia ma all’epoca killer al servizio della cosca Lo Bianco-Barba.
A farli incontrare è un gregge di pecore che aveva fatto litigare Mantella con un altro allevatore. Le pecore si erano mischiate facendo litigare i due proprietari e per stagliarle erano intervenuti Fortuna e Bonavota. La conoscenza e la frequentazione nascono da qui.
L’arma in mano per una gambizzazione
Mantella, alla ricerca di una propria autonomia e di nuove alleanze, chiede un favore ai Bonavota: di gambizzare il cognato, Antonio Franzè.
La cosca accetta e il compito viene dato proprio a Francesco Fortuna che si ritrova un’arma in mano e un compito da assolvere. È l’inizio della sua entrata ufficiale nella consorteria. Prima dei primi anni 2000 «io parlo, in questo caso parlo in mia persona – dice Fortuna –, in prima persona, diciamo di me, e non avevamo mai neanche lontanamente pensato di commettere un omicidio». I delitti, invece, saranno tre, oltre alla gambizzazione (reato di lesioni che è caduto in prescrizione).
Le affiliazioni e gli arresti
Fortuna ottiene l’affiliazione nel 2006 fino a raggiungere la dote del Padrino nel 2007. Poi arrivano le operazioni, gli arresti, il carcere divide, i rapporti si diradano, le condanne si fanno pesanti. I rapporti con l’amico di infanzia si diradano: «Però poi diciamo dal 2011 che io sono stato scarcerato, dal novembre 2010 al 2016 i rapporti per forza di cose, perché io ero sorvegliato speciale, lui ha avuto dei momenti di carcerazione domiciliare, dei momenti di carcere, dei momenti di sorveglianza speciale, i rapporti erano molto più distaccati, ma diciamo il rapporto che ci univa era sempre tale, ecco».
L’idea di collaborare già nel 2016
L’idea di collaborare, racconta Fortuna, nasce già nel 2016. «Allora, dottore – racconta il pentito rivolgendosi al pm De Bernardo –, io sinceramente avevo deciso di collaborare con la giustizia già nel 2016 quando sono stato arrestato per l’omicidio Di Leo, nel momento stesso in cui ero stato arrestato avevo deciso di collaborare con la giustizia, poi per vicissitudini personali, o meglio siccome diciamo io mia moglie aveva un bambino che era minorenne all’epoca, no? E quindi per queste problematiche ho aspettato che il figlio di mia moglie raggiungesse la maggiore età».
«Cosa che è avvenuta più di recente?», chiede il magistrato.
«Sì, è avvenuta recentissimamente».
«E quindi si è deciso», chiede il pm.
«Si».