Omicidi e un sequestro di persona nel troncone di Rinascita Scott approdato dinanzi alla Corte d’Assise d’Appello
Lupare bianche e agguati decisi dai Bonavota contro i Cracolici e dai clan Accorinti e Razionale contro i Soriano. Il solo Andrea Mantella risponde del delitto Gangitano. L’accusa deposita anche le dichiarazioni dell’aspirante nuovo collaboratore Francesco Fortuna
Si ritornerà in aula l’11 dicembre prossimo per il processo di secondo grado relativo al troncone dell’operazione antimafia Rinascita Scott che si occupa di cinque omicidi e di un sequestro di persona. La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ha infatti rinviato la prima udienza del processo per l’astensione del giudice Caterina Capitò, che ha svolto le funzioni di gup nel troncone dell’abbreviato di Rinascita Scott. La Procura generale ha però riversato agli atti del processo i primi due verbali di interrogatorio resi alla Dda di Catanzaro da Francesco Fortuna, killer ed elemento di primo piano della cosca Bonavota di Sant’Onofrio. Le sue dichiarazioni interessano infatti anche due fatti di sangue al centro del processo d’appello, vale a dire gli omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano per i quali in primo grado si è registrata la condanna all’ergastolo di Domenico Bonavota, 44 anni, di Sant’Onofrio – ritenuto il mandante dei due delitti – , mentre 30 anni di reclusione sono stati inflitti ad Antonio Ierullo, di 54 anni, di Vallelonga che avrebbe fornito appoggio logistico durante le fasi propedeutiche al duplice omicidio e sarebbe stato poi l’autore materiale della sparatoria che ha cagionato il 9 febbraio 2002 la morte di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano contro i quali sono state esplose raffiche di fucile mitragliatore kalashnikov e colpi di fucile calibro 12, tanto da lasciare sul posto dell’agguato – in contrada Muraglie di Vallelonga – i bossoli di oltre venti colpi. A recarsi insieme a Ierullo a fare un sopralluogo a Vallelonga nel 2002 ci sarebbe stato anche un soggetto di Sant’Onofrio rimasto al momento ignoto. Questa, almeno, la tesi dell’accusa che ha retto in primo grado basandosi sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Andrea Mantella di Vibo e Francesco Costantino di Maierato, ma anche sulle dichiarazioni rese a suo tempo da Bruno Di Leo di Sant’Onofrio.
Fortuna e il duplice omicidio
Nel processo entrano quindi ora anche le nuove dichiarazioni di Francesco Fortuna il quale, oltre a confermare le responsabilità nel fatto di sangue da parte di Domenico Bonavota, chiama in causa altre tre persone di Sant’Onofrio rimaste escluse dal processo e che avrebbero preso direttamente parte alla “missione di morte”. Stando alle dichiarazioni di Fortuna, Alfredo Cracolici – indicato quale capo del clan di Filogaso – avrebbe pagato con la vita il furto di un carro funebre, di una motozappa e di alcuni capi di bestiame ai danni di uno zio dei Bonavota.
La lupara bianca di Filippo Gangitano
Sul banco degli imputati in appello è rimasto solo Andrea Mantella, collaboratore di giustizia, condannato a 14 anni in primo grado. Per il delitto Gangitano sono invece stati assolti in primo grado – così come richiesto dalla stessa Dda – Paolino Lo Bianco, 61 anni, di Vibo Valentia e Filippo Catania, 73 anni, di Vibo Valentia. Assolto anche Vincenzo Barba, 72 anni, di Vibo Valentia, per il quale la Dda aveva chiesto la condanna all’ergastolo. Tale assoluzione non è stata appellata divenendo così definitiva. Filippo Gangitano è scomparso nel gennaio 2002. Secondo il racconto di Andrea Mantella, Gangitano – alias “U Picciottu” – sarebbe stato eliminato per volontà dei vertici del clan Lo Bianco-Barba in quanto ritenuto omosessuale. Di vero c’era che Filippo Gangitano, allora trentacinquenne, aveva un amico più giovane dal quale non si separava quasi mai. E quel legame finì con l’alimentare le voci che per il clan Lo Bianco-Barba si tradussero in una condanna a morte.
Andrea Mantella ha sottolineato agli inquirenti di aver provato a salvare la vita del cugino, ma i suoi sforzi si rivelarono inutili e così egli stesso si fece carico di attirare Gangitano in una trappola, coinvolgendo con l’inganno pure i suoi fratelli, ignari del piano, per consegnarlo al fucile di colui il quale l’avrebbe assassinato: Francesco Scrugli, a sua volta ucciso, dieci anni dopo, nella guerra di mafia tra i Patania di Stefanaconi ed il clan dei Piscopisani. Andrea Mantella ha spiegato che Gangitano venne atteso da Scrugli, nascosto dietro una balla di fieno, nella masseria. Sparò con un fucile calibro 12 e lo colpì alla testa. Esanime, venne messo in un sacco, caricato su una carriola e portato dall’altra parte della strada, dove fu seppellito. Ma Mantella aggiunge un altro particolare agghiacciante. Randagi e animali selvatici, avvertendo l’odore del cadavere, nascosto sotto pochi centimetri di terra, scavarono e, dopo qualche giorno, fecero affiorare alcuni resti, facendone scempio. Così il collaboratore di giustizia avrebbe dato ordine di bruciare il corpo assieme ad alcuni vecchi pneumatici e di sotterrare nuovamente ciò che restava.
Il tranello a Soriano e Lo Giudice
Porta la data del 6 agosto 1996 l’omicidio di Antonio Lo Giudice e la contestuale scomparsa per lupara bianca di Roberto Soriano. Il collaboratore di giustizia, Andrea Mantella, ha rivelato: «In quel periodo rubarono la macchina alla compagna di Antonio Lo Giudice, uomo d’onore di Piscopio, che faceva l’infermiera all’ospizio di rione Carmine di Vibo». Lo Giudice, visto che specializzati nei furti d’auto erano all’epoca i Soriano di Filandari, si rivolse a Roberto Soriano, il quale di quella macchina non sapeva però nulla, ma si offrì – ha spiegato sempre Mantella – di accompagnare Lo Giudice dal boss di Zungri Peppone Accorinti che, nel frattempo, era stato però informato da Saverio Razionale che Giuseppe Mancuso (alias ‘Mbrogghja) lo voleva eliminare e che era stato proprio Roberto Soriano a sparargli l’anno precedente (il 29 settembre 1995) su mandato del boss di Limbadi. La vendetta di Giuseppe Mancuso nei confronti di Saverio Razionale sarebbe scattata poiché il boss di Limbadi aveva chiesto a Razionale di aiutarlo ad eliminare Giuseppe Accorinti. Razionale aveva però avvertito lo stesso boss di Zungri del progetto omicidiario ed a pagare con la vita sono stati Roberto Soriano (torturato usando una tenaglia) e Antonio Lo Giudice.
Il sequestro di persona
La vicenda parte dalla contestazione di estorsione aggravata dalle modalità mafiose mossa nei confronti di Antonio Vacatello, 59 anni, ritenuto dagli inquirenti il capo ‘ndrina di Vibo Marina strettamente collegato con il boss di Zungri Giuseppe Accorinti. Secondo l’accusa, Antonio Vacatello avrebbe cercato di ottenere con modalità delittuose la restituzione o il pagamento di somme di denaro – circa seimila euro – da parte di Rocco Ursino, vibonese residente a Imbersago (nei cui confronti la Corte d’Assise ha deciso che si proceda per il reato di falsa testimonianza). La condotta copre un arco temporale che va dal 14 settembre 2016 al 12 ottobre 2016 e porta quale luogo di commissione Seregno (provincia di Monza) e Vibo Marina. Per ottenere la restituzione della somma di denaro sarebbe stato compiuto un vero e proprio sequestro di persona. Tale reato viene contestato, in concorso fra loro, ad Antonio Vacatello (condannato in primo grado a 30 anni), Pantaleo Maurizio Garisto, 41 anni, di Zungri (condannato a 20 anni), Luciano Macrì, 54 anni, di Vibo Marina (già giudicato con rito abbreviato e condannato a 20 anni in appello anche per altri reati), Valerio Navarra, 30 anni, di Pernocari (condannato a 20 anni in primo grado), Saverio Sacchinelli, 41 anni, di Pizzoni (quest’ultimo già giudicato con rito abbreviato e condannato in appello a 13 anni e 4 mesi).
Vacatello sarebbe stato il mandante e il coordinatore del sequestro di persona. Tutti gli imputati si sarebbero recati a Cernusco sul Naviglio per effettuare materialmente il sequestro di persona. Rocco Ursino sarebbe stato quindi portato in una casa di Seregno, in provincia di Monza, e qui immobilizzato e pestato. Poi il trasferimento con la forza in Calabria per rimanere nell’abitazione dei propri genitori impedendogli ogni libertà di movimento se non avesse pagato la somma asseritamente dovuta. Luciano Macrì si sarebbe dato da fare, secondo l’accusa, per contattare a Vibo la madre di Rocco Ursino informandola del debito del figlio al fine di intimorire la donna e costringerla a pagare.
Nel collegio di difesa ci sono gli avvocati: Salvatore Staiano, Giuseppe Monteleone, Gianni Puteri (tutti per Razionale), Francesco Muzzopappa, Sergio Rotundo, Diego Brancia, Vincenzo Gennaro, Nicola Cantafora, Mario Murone, Luca Cianferoni, Francesco Calabrese, Antonio Galati.
LEGGI ANCHE: Rinascita Scott: la Cassazione lascia in regime di carcere duro Salvatore Morelli