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Tre dita perse, gli usurai di Rombiolo pronti ad “aiutarlo”: «Li ho fatti condannare, ma lo Stato mi ha abbandonato». Lo sfogo di Tramontana

Il racconto della denuncia, le minacce, i proiettili nascosti anche nella tomba del padre e la via crucis di 16 lunghi anni per avere una sentenza. Tutte le falle del sistema: «Noi testimoni di giustizia dimenticati»

Tre dita perse, gli usurai di Rombiolo pronti ad “aiutarlo”: «Li ho fatti condannare, ma lo Stato mi ha abbandonato». Lo sfogo di Tramontana

«Anni di soprusi», questa volta da parte di quello Stato che gli aveva garantito incolumità. Sono parole forti quelle che il testimone di giustizia Michele Tramontana e la sua ex moglie affidano a uno sfogo che ripercorre quasi 30 anni di vita, parte dei quali spesi (male) nell’attesa di una sentenza di primo grado che è arrivata dopo 16 anni e pure monca del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in capo alle altre parti civili.

Ci si affida allo Stato nella speranza che lo Stato ci sia. Ma troppo spesso le istituzioni hanno svuotato di contenuti la parola legalità, pomposamente adoperata nel corso di troppe manifestazioni, servita ai cittadini come pietanza ben guarnita ma che spesso non sfama il bisogno di giustizia.

L’infortunio e la via crucis

La storia di Michele Tramontana dà un assaggio della sciatteria istituzionale, chiamiamola così, con la quale talvolta viene trattato chi denuncia e si espone al pericolo.
La via crucis di quest’uomo di 57 anni ha inizio nel 1995 quando il giovane Michele comincia a lavorare nella falegnameria di famiglia a Rombiolo in provincia di Vibo Valentia. L’attività va bene e cresce.
Il problema sorge nel momento in cui Michele Tramontana subisce un grave infortunio sul lavoro, con l’amputazione di tre dita di una mano.
È necessario un intervento chirurgico in una struttura specializzata per riprendere l’uso dell’arto. 

Le spese e la trappola dell’usura

L’attività è quasi ferma e le cure sono tante e anche costose.
L’obbligo di pagamento delle rate del mutuo, le spese da sostenere costringono Tramontana a chiedere prestiti, «sempre maggiori e sempre più frequenti, a chiunque, prima ai familiari, poi agli amici poi a soggetti che si rivelavano in realtà aguzzini usurai», scrive lo stesso Tramontana in uno scritto che firma insieme alla propria ex moglie Fortunata Sangeniti.
All’usura che stritola la famiglia seguono le minacce: incendi dell’opificio, danneggiamenti a beni e mezzi. Tramontana prima fugge dalla Calabria e poi, a distanza di un anno, decide, insieme ai propri familiari, di denunciare i propri persecutori.

«Anni di soprusi da parte dello Stato che ci doveva garantire incolumità»

A tre anni dalle denunce si apre un procedimento penale, denominato Pinocchio, davanti al Tribunale di Vibo Valentia. Sei persone, ritenute contigue alla cosca criminalità, sono accusate, tra le altre cose, di usura.
Sembra che tutto vada nel verso giusto ma non è così: per raggiungere una sentenza di condanna in primo grado saranno necessari 16 anni, fatti di rinvii e giudici che cambiano, smarrimento e distruzione di fascicoli. Tramontana e Sangeniti non esitano a parlare di «anni di soprusi, questa volta da parte di quello Stato» che gli aveva garantito incolumità. Sedici anni nel corso dei quali il testimone di giustizia Michele Tramontana e la sua famiglia hanno conosciuto tutte le falle del Servizio di Protezione che li porta a sentirsi poco tutelati, se non del tutto scoperti. Conoscono i ritardi da parte del governo che portano i Tramontana quasi all’indigenza. Nel frattempo muore anche il padre di Michele Tramontana, Giuseppe. Muore, scrive oggi il testimone di giustizia, dopo essere caduto «in profonda disperazione e depressione» e il figlio non potrà «accompagnarlo nella sepoltura a Vibo Valentia».

Sentenza senza ristoro

La sentenza arriva a luglio 2023, due gli imputati condannati: Raffele Lentini e Roberto Cuturello, rispettivamente a 3 e 4 anni di reclusione, oltre pene accessorie.
Ma anche dopo la sentenza la famiglia non trova ristoro. «Non una parola in sentenza in ordine al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in capo alle altre parti civili costituite», scrivono Tramontana e la sua ex moglie Fortunata Sangeniti.
Attraverso il proprio avvocato, Rosario Scognamiglio, Tramontana e i familiari interpongono «appello sul punto del mancato riconoscimento del danno  in favore degli stessi ed il fascicolo viene quindi trasmesso alla Corte di Appello di Catanzaro». Chiedono la trattazione ravvicinata del procedimento, evidenziando sia la imminente prescrizione dei reati che il loro stato di bisogno.

«Testimoni di come viene amministrata la giustizia»

«Incomprensibilmente la Corte respingeva detta ultima istanza affermando che non vi erano motivi di urgenza e che la trattazione sarebbe stata disposta secondo la calendarizzazione ordinaria dell’ufficio. Trascorso oltre un anno dalla emissione della sentenza, ad oggi nessuna fissazione è stata disposta».
Michele Tramontana oggi si trova bloccato «nell’acceso ai fondi per le vittime di usura e di reati di stampo mafioso non essendovi sentenza definitiva; gli altri familiari addirittura dovrebbero restituire quel poco percepito».
«Testimoni di giustizia. O meglio testimoni di come viene amministrata la giustizia», è l’amaro commento di un uomo che racconta di avere conosciuto il gelo della paura: «… hanno sparato contro la sua autovettura. Pizzini e proiettili sono stati recapitati a tutti i familiari, addirittura nascosti sulla tomba del padre ma…..tutte le denunce sono state archiviate. Comprese quelle nei confronti dell’amministrazione cadute nel silenzio più fitto».
Nella settimana della tre giorni di Libera “Contromafiecorruzione” Tramontana si chiede se battersi, discutere, fare rete, alla fine possa bastare: «Forse è una illusione che grazie a Libera qualcosa si muova, per destare coscienze sopite. L’importante è che si sappia la verità e si squarci il silenzio».

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