“Black money”, iniziata la requisitoria del pm Marisa Manzini
Davanti al Tribunale collegiale di Vibo Valentia, il magistrato della Dda ha suddiviso la sua esposizione in due atti concentrandosi dapprima sul vincolo associativo del clan Mancuso («dimostrato fin dal 2003») e, in seguito, sulle singole posizioni dei 21 imputati
Ha preso il via questa mattina al Tribunale di Vibo Valentia la requisitoria del pubblico ministero della Dda Marisa Manzini relativa al processo “Black money”. Un’esposizione che, davanti al Tribunale collegiale presieduto dal giudice Vincenza Papagno con a latere Giovanna Taricco e Pia Sordetti, l’esperto magistrato ha deciso di suddividere in due atti concentrandosi, nella prima, sul vincolo associativo dei 21 imputati ritenuti organici al clan Mancuso di Limbadi e, successivamente, sulle singole posizioni degli stessi.
Esposizione preceduta, peraltro, dall’annuncio da parte dello stesso pm di chiedere al Tribunale la trasmissione degli atti alla Procura asserendo la “falsa testimonianza” da parte di numerosi testimoni che avrebbero reso dichiarazioni «con estrema difficoltà, o addirittura mendaci, negando circostanze certe», costituendo a parere del magistrato un elemento del «chiaro assoggettamento alla cosca e dunque una prova a carico dell’accusa».
Un riferimento anche alla richiesta di remissione del processo avanzata dalle difese e all’atteggiamento tenuto da uno dei principali imputati del processo: Pantaleone Mancuso “Scarpuni” quando intimò alla stessa pm di “stare zitta”. Situazioni che hanno provocato «una mancata serenità del Collegio giudicante a seguito delle dichiarazioni dure di un imputato di spicco del gruppo mafioso che anche in quella occasione ha mostrato tutta la propria violenza».
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Dunque l’analisi del vincolo associativo, già chiaramente emersa in altre inchiesta come “Dinasty – Affari di famiglia” nel 2003, che per la Manzini «faceva accrescere la percezione di unitarietà all’esterno, nonostante le frizioni all’interno, portando ad incutere timore tra la gente che viveva in uno stato di assoggettamento e terrore e ad ottenere percentuali sulle estorsioni dalle altre ’ndrine collegate. E anche su questo ci sono dichiarazioni di Andrea Mantella a confermarlo».
Oltre alle dichiarazioni del pentito sono state richiamate anche le risultanze investigative fornite dal colonnello Giovanni Sozzo che ricostruì le origini della consorteria a partire dal ruolo di Ciccio Mancuso, classe ’29, «candidato nel 1983 in stato di latitanza alle elezioni per poi risultare eletto sindaco di Limbadi, in seguito sciolto per mafia. La storia si è ripetuta – ha ricordato la Manzini -, con il defunto Pantaleone Mancuso (alias Vetrinetta) che si adoperò per reperire voti nel corso delle elezioni comunali del 2012 in tre paesi (Limbadi, Joppolo e Ricadi)». Nessun dubbio, quindi, sull’unitarietà della cosca: «lo confermano i collaboratori che spiegano come nel tempo si siano evolute forti conflittualità interne ma che, tuttavia, ha sempre prevalso la necessità di tenere unita la famiglia, tant’è che, come affermava sempre “Vetrinetta”, al suo interno non sono mai stati trovati pentiti».
Anche per questo pentiti come Mantella fanno molta paura alla cosca. «L’esame del “collaboratore dell’ultima ora” (come lo ha definito lo stesso magistrato, ndr) ha determinato una forte fibrillazione e malgrado i numerosi tentativi della difesa di renderlo poco credibile o inattendibile con richiami alla vita privata, non ci sono elementi ad indurre il tribunale ad intenderlo come tale. Mantella – ha proseguito la Manzini – fa talmente paura che nell’udienza dell’11 ottobre scorso si è assistito ad un attacco scomposto, arrogante, brutale e violento da parte di Pantaleone Mancuso che si spiega solo col timore che le sue parole possano rappresentare un pericolo per le condotte illecite dell’imputato perpetrate nel corso degli anni. Imputato che in quell’occasione ha lanciato un messaggio preciso a chi ascoltava dando la prova della sua caratura criminale».
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In conclusione della prima parte della requisitoria del pm, dunque, vi è l’asserzione del magistrato che le «indagini e il processo che hanno dimostrato senza alcun dubbio l’operatività della cosca Mancuso anche dopo la sentenza “Dinasty». Il “secondo atto” ha quindi riguardato, come detto, le posizioni dei singoli. A cominciare dalle figure “carismatiche” della consorteria di Limbadi: quelle di Antonio e del defunto Pantaleone “Vetrinetta”, fratelli di Luigi e Cosmo, e poi quella di Giovanni e Pantaleone “Scarpuni”. Figure il cui spessore criminale è stato ricostruito in aula dalla Manzini sulla scorta delle intercettazioni, degli atti processuali e delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, tracciando così l’organigramma familiare del clan.
Da Antonio, che rivestiva una posizione di vertice insieme al defunto “Vetrinetta” ed era in grado di dirimere le questioni interne salvaguardando l’immagine esterna, a Giovanni, mente economica che reinvestiva in attività varie i proventi delle attività usuraie contando su una schiera di “soldati” tra cui Gaetano Muscia e Giovanni D’Aloi.
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E, ancora, il ruolo del defunto “Vetrinetta”, delle cui “velleità” politiche si è già detto, ma che non disdegnava neppure, come emerso in un’intercettazione, i rapporti tra ‘ndrangheta e massoneria. Il pm Manzini ha infine descritto anche la figura dell’imprenditore Antonino Castagna che incarnerebbe la «dimostrazione dell’attenzione del clan Mancuso nella gestione del proprio potere economico che si prefigge lo sfruttamento di ogni risorsa locale e diversifica gli investimenti volgendo lo sguardo oltre i confini calabresi. Per questo l’imprenditore Castagna ha assunto nel tempo una centralità sempre più marcata per le sorti della cosca con cui ha non un mero rapporto collusivo divenendo obiettivo ambito dalle consorterie insofferenti ai Mancuso, così come riferiscono i pentiti, in particolare Andrea Mantella».
Domani si torna nuovamente in aula con la seconda parte della requisitoria.