Maestrale, il pentito Giampà: «Mi chiesero di uccidere il boss di Mileto». E su Ascone (U’ Pinnularu): «Vendeva armi e droga»
Deposizione del collaboratore di giustizia nel corso del processo in svolgimento nell’aula bunker di Lamezia. «Avrei dovuto ammazzare Pasquale Pititto mentre era in un bar, ma non mi fidavo di Fortunato Galati e rifiutai»
Alle cosche lametine venne chiesto di uccidere Pasquale Pititto per vendicare un altro omicidio che veniva imputato allo stesso Pititto, boss di Mileto, di recente tornato in regime di 41 bis. Lo racconta, nel corso del processo Maestrale, istruito dalla Dda di Catanzaro contro la ‘ndrangheta vibonese, il collaboratore di giustizia Giuseppe Giampà ex reggente dell’omonima cosca di Lamezia Terme. I legami tra i Giampà e le cosche vibonesi è sempre stato attivo, in particolare con la cosca Mancuso.
La richiesta da parte di Fortunato Galati
«A me venne chiesto di eliminare questo soggetto in sedia a rotelle da Fortunato Galati, il fratello della moglie di mio cugino. Lo ritenevano, infatti, responsabile della morte del padre di Fortunato, quindi una vendetta». L’agguato sarebbe dovuto avvenire mentre la vittima, «che era ai vertici della ‘ndrangheta di Mileto», si recava in un bar di Mileto che frequentava spesso.
Il rifiuto dell’incarico
Ma Giampà rifiutò l’incarico perché racconta che non si fidava di Fortunato Galati perché non lo conosceva e, dopo aver parlato con suo cugino Antonio Stagno, boss della ‘ndrangheta brianzola, anche lui scettico, giunse alla conclusione che non conosceva bene la zona e i mandanti.
«Il problema non era l’omicidio in sé ma la fuga dopo l’agguato, ma non conoscevamo neanche gli eventuali legami familiari».
C’erano poi questioni di carattere diplomatico perché Pititto «era di fatto il suocero di mio cugino». L’ex reggente decise allora non vendicare un omicidio che non li riguardava.
Ascone e i bidoni con armi e droga
Giuseppe Giampà racconta che la sua cosca faceva riferimento a Luigi Mancuso «come persona da stimare» ma della cosca conosceva anche, dice, Cuturello e Salvatore Ascone, detto U’ Pinnularu, con il quale aveva frequenti contatti per il traffico di droga e armi.
Giampà racconta che a casa di Ascone, «nelle campagne di Limbadi» c’erano dei bidoni nei quali veniva occultato il materiale e che l’imputato Ascone, accusato di essere elemento importante all’interno della cosca Mancuso, aveva anche una stalla nella quale andava a prendere la droga. Ma non solo. Il collaboratore riferisce che «Ascone aveva un sacco di armi. Da lui ho comprato anche un kalashnikov, tre pistole e altro. Poi svariati chili di cocaina, eroina… di tutto. Venivano anche famiglie della Ionica che compravano droga da lui quando non ce n’era da loro».
A presentare Ascone e Giampà è stato, dice il collaboratore, «mio cugino Antoni Stagno. Visto che sapeva che io cercavo un fornitore me lo presentò e io poi mi rifornivo da lui».
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