«L’ho attaccato alla sedia e lo abbiamo scassato», 30 anni al capo della ‘ndrina di Vibo Marina per le vessazioni su un debitore
Le motivazioni della sentenza di Rinascita Scott che ha condannato Antonio Vacatello per sequestro di persona e tentata estorsione nei confronti di Rocco Ursino che doveva restituire 6.000 euro. La vittima ha minimizzato il fatto addossandosi la colpa ma i giudici non gli hanno creduto
Il debito che Rocco Ursino aveva contratto con Antonio Vacatello era di circa 6000 euro. Non una cifra esorbitante ma è bastata a mettere in moto, da parte di Antonio Vacatello – considerato il capo ‘ndrina a Vibo Marina del locale di Zungri capeggiato da Giuseppe Antonio Accorinti – una tentata estorsione e un sequestro di persona.
Vacatello (condannato a 30 anni), con un nutrito gruppo di persone, tra le quali Maurizio Pantaleo Garisto (condannato a 20 anni), Valerio Navarra (20 anni) e Saverio Sacchinelli (condannato in abbreviato a 13 anni e quattro mesi) ha organizzato il viaggio che ha condotto il gruppo a Cernusco sul Naviglio, in provincia di Lecco, e che si è concluso con il prelievo Ursino e il suo trasporto in Calabria.
Una volta giunti al sud Luciano Macrì (condannato in abbreviato a 20 anni per questo e altri reati) ha contattato la madre di Ursino informandola del debito che aveva il figlio, per intimorirla e costringere la famiglia a pagare.
«Io vado da tuo padre e da tua madre… e comincio a sfasciare la casa»
In questo troncone di indagine del maxi processo Rinascita Scott, finito davanti alla Corte di Assise di Catanzaro, molto fanno le intercettazioni che riprendono le minacce che Vacatello rivolge ora a Rocco Ursino, ora alla madre, pur di rientrare in possesso del proprio credito.
«Io vado da tuo padre e da tua madre… e comincio a sfasciare la casa a tua madre e a tuo padre, a me non mi chiamare più, che io non ti voglio vedere». E facendosi sentire al telefono dalla madre della vittima: «Digli a tua madre che se non me li dai che devo fare io!… adesso lo scanno!».
Nel corso del tempo, prima del sequestro, le minacce hanno un crescendo rossiniano. Mentre Ursino promette di rimediare al debito: «E fammi… fammi recuperare il danno almeno», Vacatello aumenta la portata delle minacce: «… io li voglio da tuo padre domani, se no lo faccio morire di crepacuore».
E ancora: «E comunque guarda che vengo lì (in Lombardia, ndr), non ho problemi io vengo lì. Io mi auguro che me li hai mandati, va bene?»
E dato il perdurante inadempimento dell’Ursino, Vacatello alzava il tiro: «Mezz’ora e vado a casa di tuo padre e lo faccio saltare fuori».
«Il padre deve sentire mentre lo spacco di botte»
Nel momento di eseguire il sequestro, Vacatello informa Macrì che di lì a breve avrebbe incontrato Ursino e che lo avrebbe caricato sulla propria autovettura e gli preannuncia l’intenzione di collegarsi telefonicamente in modo da far udire al padre l’azione violenta che stavano per compire sul figlio in modo da sollecitare i genitori a sobbarcarsi spontaneamente la garanzia del debito del figlio: «E io mi chiamo a suo padre… se i suoi mi dicono lascia mio figlio che te li diamo noi lo lascio stare, sennò lo lascio morto qua, va bene?».
Vacatello dice che si recherà in una campagna col sequestrato e desidera che il genitore senta «mentre lo spacco dalle botte».
«Questa è la seconda passata che prende, lo abbiamo scassato»
Rocco Ursino promette che riuscirà ad avere il denaro (che gli avrebbe dovuto dare un altro soggetto) ma la cosa non avviene e a quel punto Luciano Macrì è categorico: «Ora tu senza mutande, senza valigia prendi e parti ora e vieni qua che ti aspetto io. E ti stai a casa con mamma tua e la guardi, gli dai le medicine e tutte cose e stai qua e non vai più a Milano. Okay?».
«Va bene», risponde Ursino.
Prima di rientrare in Calabria, però, Vacatello confida a Macrì la “lezione” che ha dato al suo debitore: «Questa è la seconda passata che prende, lo abbiamo scassato! Lo abbiamo scassato! L’ho attaccato alla sedia nella casa… Ora me lo salgo in macchina e me lo scendo».
Le giustificazioni di Ursino: «Nessuna pressione su di me e sulla mia famiglia»
Sentito nel corso del processo, Rocco Ursino ha ridimensionato di parecchio tutta la vicenda parlando di «rapporti di amicizia, rapporti che mi ha fatto qualche favore del tipo che gli ho chiesto un prestito e me l’ha fatto e non sono stato io una persona precisa che dovevo rispettare per dargli detti soldi, diciamo, che l’ho tirato un po’ pazzo, e da un mese glielo ho portato forse a un anno, tutto qua». Ed ha assicurato di non aver mai ricevuto alcuna minaccia da Vacatello, il quale al massimo si adirava comprensibilmente con lui a causa della protrazione del suo inadempimento. La propensione era quella a giustificare l’ira del suo amico: «Prima degli assegni avevo dato indietro 4mila euro, ma lui aveva bisogno di chiudere il suo impegno che aveva preso, che lui sicuramente avrà chiesto un favore, credo io, per farmelo a me, si è incasinato lui per colpa mia, e su quello sicuramente è stato così, e poi abbiamo litigato. È degenerato un attimino, ma non c’è stata nessuna pressione su di me, sulla mia famiglia, a me non hanno toccato, né la mia famiglia nessuno».
Vacatello: «Non l’ho mai sfiorato»
In merito alla propria discesa in Calabria, la persona offesa ha riferito di essere partito direttamente dalla casa dell’amico del Vacatello, precisando di non aver sentito la necessità di passare prima da casa per preparare una valigia per il viaggio anche a causa dei cattivi rapporti con la moglie.
A queste dichiarazioni si aggiungono quelle dello stesso Vacatello, risalenti al verbale del 13 luglio 2020: «Voglio precisare che il signor Ursino Rocco, all’infuori delle telefonate che erano aggressive e minatorie per motivo qual è un mio carattere borderline ma io non l’ho mai sfiorato. Voglio precisare che al di fuori di suo fratello che mi ha dato soldi non ho avuto nessun tipo di rapporti con nessuno della sua famiglia».
La sentenza: «Le intercettazioni cristallizzano le minacce e il sequestro»
Ma secondo la Corte d’Assise le intercettazioni «hanno perfettamente cristallizzato sia l’evoluzione del rapporto di debito-credito tra Ursino Rocco e Vacatello Antonio — caratterizzato dalle crescenti minacce rivolte da quest’ultimo nei confronti dell’Ursino e della sua sfera familiare al fine di ottenere l’adempimento del proprio credito — sia i contorni del sequestro di persona a scopo di estorsione perpetrato in data 12 ottobre 2016, allorquando Vacatello, in concorso con gli imputati Macrì, Navarra, Garisto e Sacchinelli, limitava la libertà personale dell’Ursino dapprima trattenendolo all’interno dell’abitazione del Garisto – praticando, peraltro, atti di violenza nei suoi confronti (“Questa è la seconda passata che prende, lo abbiamo scassato! Lo abbiamo scassato!”‘) — e poi conducendolo contro la sua volontà in territorio calabrese al fine di esercitare una maggiore pressione nei confronti della sfera familiare dell’Ursino».
Le condanne e trasmissione degli atti per falsa testimonianza
Per questa ragione la Corte ha considerato «mendace» la versione resa da Ursino, fatto che rappresenta «un chiaro indice del metus e della forza intimidatoria promanata dal Vacatello e dai suoi sodali».
La Corte ha condannato Antonio Vacatello a 30 anni di reclusione (esclusa l’aggravante mafiosa), e Garisto e Navarra a 20 anni di reclusione ciascuno (esclusa anche per loro l’aggravante mafiosa).
Per quanto riguarda Ursino, è stata disposta la trasmissione di copia degli atti all’ufficio del pubblico ministero in sede per le determinazioni di competenza in ordine al delitto di falsa testimonianza.