domenica,Febbraio 16 2025

Rinascita Scott, lo «scempio archeologico» del clan Mancuso a Vibo e gli agganci massonici per costruire in un’area vincolata

Nelle motivazioni della sentenza c’è la vicenda di una strada del 300 avanti Cristo sfregiata da Giovanni Giamborino con una colata di cemento. Il braccio destro del boss di Limbadi avrebbe tentato (con successo) di ottenere il permesso di costruire grazie ai suoi appoggi a Roma

Rinascita Scott, lo «scempio archeologico» del clan Mancuso a Vibo e gli agganci massonici per costruire in un’area vincolata
Nel riquadro Giovanni Giamborino

Un terreno sottoposto a vincolo archeologico sul quale il clan Mancuso aveva messo gli occhi da tempo, una strada romana del 300 avanti Cristo e una colata di cemento per sugellare uno sfregio. Nelle motivazioni della sentenza Rinascita Scott c’è l’ossessione di Giovanni Giamborino, braccio destro del boss Luigi Mancuso, per un terreno sottoposto a vincolo archeologico. Ci sono i tentativi di bypassare i divieti grazie ad appoggi romani e la decisione di rompere gli indugi e sporcare la storia millenaria con una colata di cemento.

«Oggi ho buttato un muro, se mi beccano mi fanno rovinato. Mi rompeva il c… quel muro e l’ho buttato, adesso ho paura della Soprintendenza». Così Giovanni Giamborino, che i giudici del Tribunale di Vibo Valentia hanno condannato a 19 anni nel processo di primo grado. Per sistemare le carte con la Soprintendenza e ottenere un permesso a costruire, Giamborino avrebbe dato fondo a tutte le proprie energie e ai propri contatti, anche massonici. Fino alla decisione di «buttare» quel muro.

La vicenda apre scenari che raccontano le capacità relazionali della cosca e il suo totale disprezzo dei beni comuni. Il commento dei magistrati è netto: «La bruta furia demolitrice dell’imputato determinava in pochi minuti la distruzione di un manufatto che aveva superato indenne i millenni». Una strada romana del 300 avanti Cristo distrutta per frustrazione. Il verbale dei Carabinieri addetti alla tutela del patrimonio culturale e del personale della Soprintendenza dei Beni culturali mettono i fatti nero su bianco. Sul cantiere di Giamborino scatta il sopralluogo e «a causa della difformità riscontrata sulla gettata di cemento» i lavori vengono sospesi e, «con essi, lo scempio archeologico in atto».

La circostanza viene confermata dal maggiore Francesco Manzone nell’udienza del 30 novembre 2021: «Posso affermare – spiega alla corte – che su questi resti archeologici emersi è stato in maniera molto semplicistica fatta una gettata di cemento in modo tale da coprirli e poterci costruire sopra». La storia del terreno e dei tentativi di mettere a frutto l’investimento dimostra i collegamenti tra Giamborino e gli esponenti del clan di Limbadi. Ma anche la possibilità per uno ’ndranghetista condannato in primo grado di entrare in contatto con i livelli più elevati della pubblica amministrazione. Una capacità che viene evidenziata anche nella sentenza: «Per la costruzione di questo fabbricato – è scritto nelle motivazioni – Giamborino nel corso degli anni si era dovuto districare tra mille difficoltà, dovute soprattutto al vincolo archeologico apposto con decreto ministeriale del 1987 e ai problemi con la Soprintendenza dei Beni archeologici che aveva bloccato la costruzione della struttura». L’idea era quella di realizzare un palazzo che potesse ospitare una spa. Impossibile, almeno in una prima fase. Poi cambia qualcosa: «I lavori erano ripresi solo a seguito di un cambiamento ai vertici della Soprintendenza e del pensionamento della dottoressa Maria Teresa Iannelli, inflessibile funzionaria che fino al primo maggio del 2015 era deputata a rilasciare il placet a eventuali progetti presentati al Comune di Vibo Valentia per superare vincoli paesaggistici, archeologici o culturali». A quel punto, per Giamborino e i suoi soci occulti le porta paiono riaprirsi: «Sempre avvalendosi delle amicizie influenti e dei rapporti massonici di cui Giamborino godeva, grazie ad un suo amico “direttore generale dello sviluppo economico di Roma” veniva indirizzato verso il “direttore generale di tutta la Soprintendenza d’Italia” con la quale Giamborino intratteneva dei contatti telefonici». Il braccio destro del boss «alla fine otteneva due permessi a costruire sulla particella sulla quale era stato apposto il vincolo archeologico».

Dopo l’ok della Soprintendenza, i lavori possono iniziare e Giamborino spiega a una sua interlocutrice «che il terreno di sua proprietà era sottoposto a vincolo archeologico per via della presenza di mura greche e di una strada del 300 avanti Cristo». È in questa conversazione che l’imputato svela «di aver rozzamente risolto il problema provvedendo all’abbattimento delle antiche vestigia, almeno per la parte che ostacolava la costruzione del proprio immobile». Si tratta dello «sfregio archeologico» che i carabinieri riscontreranno qualche tempo dopo. Quando Giamborino spiega che il muro gli «rompeva» è il 2 febbraio 2016: di quel «parco archeologico» e di quelle «mura greche» non gli interessa nulla. Per la cosca non c’è alcuna differenza tra una strada millenaria e una colata di cemento.

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