Rinascita Scott: la condanna per corruzione di una poliziotta e la responsabilità di un gioielliere di Vibo
Il funzionario pubblico si sarebbe rivolto ad Orazio Lo Bianco per agevolazioni nelle prestazioni sanitarie mentre per il Tribunale non sussistono dubbi nella tentata estorsione, aggravata dal metodo mafioso, per l’affitto di un immobile agli imprenditori Artusa
Spiegano anche il percorso logico-giuridico per arrivare ad una sentenza di condanna nei confronti di una poliziotta della Stradale di Vibo e di un gioielliere vibonese, le motivazioni della sentenza Rinascita Scott depositate dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia presieduto dal giudice Brigida Cavasino (a latere i giudici Claudia Caputo e Germana Radice). Distinte contestazioni trattate nel maxiprocesso e che – seppur con una pena inferiore a quella richiesta dalla Dda di Catanzaro – hanno visto l’affermazione della penale responsabilità dei due imputati.
La posizione della poliziotta
Per Daniela De Marco, 47 anni, di Filadelfia, poliziotta della Polizia stradale di Vibo Valentia l’accusa contestata era quella di corruzione aggravata dalle finalità mafiose in quanto in virtù di un accordo stretto con Orazio Lo Bianco, 50 anni, di Vibo Valentia (ritenuto elemento di spicco dell’omonimo clan e condannato a 22 anni quale esponente della ‘ndrina dei Pugliese, detti “Cassarola”), a quest’ultimo non sarebbero state verbalizzate alcune infrazioni commesse dopo essere stato fermato ad un posto di blocco. In cambio Orazio Lo Bianco avrebbe garantito alla poliziotta “corsie preferenziali per prestazioni sanitarie in ogni reparto dell’ospedale di Vibo Valentia”. La poliziotta della Stradale (per la quale la Dda aveva chiesto la condanna a 6 anni) si sarebbe poi rivolta più volte ad Orazio Lo Bianco anche per prenotare visite mediche, senza pagare, nella clinica Villa dei Gerani.
Ad avviso del Tribunale la vicenda viene ricostruita grazie alle intercettazioni sul telefonino di Orazio Lo Bianco dal quale emergono “frequenti contatti tra lo stesso e la De Marco relativi per lo più a prestazioni sanitarie che la donna voleva ottenere mediante l’interessamento del primo. L’attività tecnica di questo procedimento – si legge in sentenza – ha consentito di far emergere un assoggettamento generalizzato della sanità vibonese, sia pubblica che privata, al potere dei gruppi criminali, al punto che persino rappresentanti dello Stato si rivolgevano a Orazio Lo Bianco per ottenere agevolazioni e favoritismi grazie alle conoscenze di cui poteva godere quest’ultimo in ambito medico”. Il Tribunale conferma così l’intercessione di Orazio Lo Bianco per una visita medica che interessava la De Marco e non crede alla versione della poliziotta e di altri due suoi colleghi che hanno riferito in aula di non aver constatato infrazioni al codice della strada da parte di Lo Bianco nel corso di un posto di blocco. Per i giudici “il dato captativo è da considerarsi del tutto genuino perché proveniente da soggetti che non potevano sapere di essere monitorati e smentisce la tesi fornita dall’imputata e dai testi della difesa. Orazio Lo Bianco contattava la De Marco riferendole che i suoi colleghi gli stavano elevando una sanzione perché lo avevano trovato alla guida senza la necessaria cintura di sicurezza e la donna si offriva di intercedere con gli stessi, cosa che effettivamente accadeva. Nella seconda telefonata intercorsa tra Lo Bianco e De Marco in data 16 agosto 2018 – ricordano i giudici in sentenza – Lo Bianco ringraziava la donna per l’intervento risolutivo e la De Marco diceva: “Ah, fìgurati! Quando si può…”, espressione che sconfessa ulteriormente il racconto fornito dalla donna in sede di esame. Orazio Lo Bianco raccontava, inoltre, alla poliziotta di essersi vantato con i suoi colleghi di poter ricambiare il favore e intercedere per prestazioni sanitarie in tutti i reparti, e che questa circostanza gliela potevano confermare anche altri poliziotti, oltre al fatto che anche la De Marco ne aveva già usufruito”. Da qui per il Tribunale la responsabilità di entrambi gli imputati per il reato di corruzione “poiché sussiste un patto implicito tra Lo Bianco Orazio, che promette e dispensa prestazioni sanitarie agevolate, e De Marco Daniela, funzionario pubblico che accetta l’utilità indebita e, in cambio, istiga l’omissione di un atto doveroso dell’ufficio commessa dagli altri due funzionari”. Regge anche l’aggravante mafiosa nel reato di corruzione poiché per i giudici “non è credibile che Daniela De Marco, poliziotta in servizio da molti anni nella città di Vibo Valentia, non conoscesse la caratura di Orazio Lo Bianco e non fosse consapevole che costui, formalmente titolare di un’agenzia di pompe funebri, controllasse la sanità vibonese anche come forma di affermazione sul territorio della consorteria di cui faceva parte, sfruttando questi suoi rapporti per offrire prestazioni agevolate in cambio di favori di vario genere”.
La posizione del gioielliere Tedeschi
Nei confronti del gioielliere Vittorio Tedeschi, 80 anni, di Vibo Valentia, la Dda aveva chiesto la condanna a 5 anni e 4 mesi per tentata estorsione aggravata dalle finalità mafiose. Il Tribunale l’ha condannato a 2 anni e 8 mesi. Secondo l’accusa, tramite “l’avvicinamento di Vittorio Tedeschi”, definito “amico” del boss di Limbadi Luigi Mancuso, gli imputati Maurizio e Mario Artusa, Gianfranco Ferrante ed Emanuele La Malfa avrebbero tentato di convincere Vincenzo Brancia (parte lesa nel processo) a locare l’immobile di proprietà della nobildonna Anna De Riso Paparo, sito a Vibo Valentia su corso Vittorio Emanuele III numero 14, agli imprenditori Artusa che avevano intenzione di allestire proprio lì il loro negozio di abbigliamento. Brancia, infatti, era fermamente intenzionato a non concedere più in locazione il bene agli Artusa per via della loro precedente morosità. Per il Tribunale emerge che il gioielliere Vittorio Tedeschi, “il quale secondo i conversanti aveva un debole per “lui”, ovvero per Luigi Mancuso, aveva comunicato che Brancia era disposto ad affittare il locale; ciò si era reso possibile solo grazie all’intervento del gioielliere che aveva convinto il Brancia ad avviare una trattativa che fino a poco prima sembrava impossibile, considerata la pregressa morosità degli Artusa nei confronti del Brancia”. Per i giudici, quindi, “così come ricostruito il fatto, non sorgono dubbi in ordine al riconoscimento della responsabilità penale in capo a tutti i concorrenti e nei termini prospettati dalla pubblica accusa. La vicenda è inquadrabile nell’ipotesi della c.d. tentata estorsione contrattuale”, aggravata dalle finalità mafiose. Tutti i concorrenti nel reato per i giudici “hanno svolto un ruolo al fine di coartare la libera determinazione di Brancia, amministratore dei beni della famiglia De Riso Paparo e delegato dalla proprietaria a condurre le trattative. Nel caso di specie la minaccia è consistita nell’evocazione della caratura criminale di alcuni soggetti vicini agli Artusa, che erano interessati al buon esito della trattativa. Ferrante e La Malfa, su impulso di Mario e Umberto Maurizio Artusa – si legge in sentenza -si recavano dal Tedeschi, persona vicina a Luigi Mancuso e allo stesso tempo in grado di far pervenire l’imbasciata al Brancia, che, difatti, a seguito dello scambio intercorso con il gioielliere cambiava repentinamente idea e decideva di concedere in locazione l’immobile, anche convincendo la proprietaria ad abbassare il canone di affitto”.
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