Petrolmafie, Mancuso boss carismatico ma non a capo di tutta la ‘ndrangheta: le motivazioni della condanna a 30 anni
La figura del reggente della Locale di Limbadi nelle parole dei giudici: dalla capacità di imporsi comunque come punto di riferimento della criminalità organizzata alla politica di “pacificazione” (anche con le cosche reggine)
«Luigi Mancuso ha saputo “imporsi” quale vero e proprio punto di riferimento della criminalità organizzata», tanto da riuscire a dirimere controversie anche con le cosche reggine. Questo però, dicono i giudici che lo hanno condannato a 30 anni nel processo Petrolmafie – Gianfranco Grillone presidente, Laerte Conti e Alessio Maccarrone a latere –, non lo pone al vertice di tutta la ‘ndrangheta.
Un uomo carismatico, autorevole, capace di suscitare «una sorta di ammirazione fideistica» anche da parte di soggetti estranei alla cerchia dei più stretti accoliti. Un uomo che ha «mostrato una indiscussa capacità relazionale, correlata alle sue doti carismatiche, che si ripropone anche nei rapporti tra le cosche attive nella provincia di Vibo Valentia». Così viene descritto Luigi Mancuso, capo del locale di Limbadi, dal Tribunale di Vibo Valentia che lo scorso primo dicembre ha pronunciato la sentenza del processo Petrolmafie che condanna “Zio Luigi” a 30 anni di reclusione.
Allo stesso tempo i giudici specificano che, per quanto carismatico e potente, non sono emersi elementi sufficienti a sostegno dell’ipotesi che Luigi Mancuso sia posto alla guida, nel ruolo di Crimine, della ‘ndrangheta unitaria.
Le sentenze che rimarcano l’unitarietà della ‘ndrangheta
Il dato sull’unitarietà della ‘ndrangheta, anche quella vibonese, è una statuizione già definitiva e messa nero su bianco in più sentenze, compreso il procedimento Petrolmafie svolto con rito abbreviato. A questo si aggiungono, di recente, la sentenza del maxi processo Rinascita Scott, della Corte d’Appello di Catanzaro che si è pronunciata sull’abbreviato dello stesso procedimento e della Corte d’Assise che ha giudicato il troncone omicidi di Rinascita. Sull’appartenenza del Vibonese al Crimine di Polsi e alla ‘ndrangheta unitaria si parla già nella sentenza definitiva del processo Crimine.
D’altro canto, l’accusa, ovvero la Dda di Catanzaro, non ha mai sostenuto che Luigi Mancuso fosse al vertice di tutta la ‘ndrangheta.
Luigi Mancuso e la posizione stralciata da Rinascita
La posizione di Luigi Mancuso, è bene ribadirlo, è stata stralciata dal processo Rinascita Scott ed è proseguita autonomamente nel processo Petrolmafie, portando in “dote” un’istruttoria parziale sulla figura del boss di Limbadi.
Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia
Tralasciando questioni che saranno affrontate certamente in sede di appello, i giudici del Tribunale di Vibo Valentia ritengono che «sebbene vi siano collaboratori di giustizia escussi negli anni Novanta che indicano l’imputato come soggetto posto al vertice della ‘ndrangheta» quelle stesse dichiarazioni non possono essere riproposte per sostenere quella che è la attuale situazione piramidale all’interno della criminalità organizzata calabrese. In tempi più recenti vi sono le dichiarazioni di Andrea Mantella che definisce Luigi Mancuso «Presidente del Consiglio della ‘ndrangheta». Le dichiarazioni del collaboratore, un tempo al vertice dell’ala scissionista delle cosche vibonesi, vengono ritenute dal collegio limitate a riflessioni e frasi assertive «che non hanno trovato ulteriori riscontri in altri elementi probatori».
Le intercettazioni
Le stesse intercettazioni non bastano ai giudici per superare l’ostacolo dimostrativo. Le intercettazioni del braccio destro di Mancuso, Pasquale Gallone, non implicano «necessariamente l’aver voluto sottolineare la posizione verticistica dell’imputato – è asserito in sentenza –, quanto un’esaltazione della sua figura carismatica; detto altrimenti, si tratta di un riconoscimento delle capacità criminali di Luigi Mancuso, un complimento al suo illecito agire proveniente dal suo braccio destro e, inevitabilmente, condizionato dal rapporto di fiducia e di subalternità che lo lega al suo capo…».
Di “Zio Luigi” parla anche il collaboratore Emanuele Mancuso che descrive le relazioni che Luigi Mancuso riusciva a tessere con le altre consorterie «anche al di fuori della provincia di Vibo Valentia, in un costante e fisiologico scambio di richieste e favori tra gruppi finalizzato, da un lato, al perseguimento dei rispettivi obiettivi, e, dall’altro lato, ad evitare inutili scontri fra fazioni, unicamente idonei ad attirare l’attenzione indesiderata dello Stato».
La strategia di pacificazione di Luigi Mancuso
Una figura, quella del boss di Limbadi che viene unanimemente descritta come carismatica e diplomatica. Un uomo che «grazie al suo carisma ed alla sua autorevolezza aveva evitato che i dissapori precedentemente sorti sfociassero in azioni violente ed estreme come già accaduto in epoca antecedente, come, ad esempio, il tentato omicidio di sua sorella Romana Mancuso nel 2008». Luigi Mancuso è stato scarcerato nel 2012 e nel 2013 è stato tratto in arresto Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”. Con il suo ritorno Zio Luigi «aveva posto in essere una strategia “di pacificazione”» e la sua figura viene descritta come «figura sovraordinata persino a Pantaleone Mancuso, detto “Scarpuni”, colui che nel 2012 era considerato il soggetto di vertice della famiglia». In più «oltre ad aver sanato i dissapori in seno alla sua famiglia, Luigi Mancuso aveva intessuto una fitta rete di relazioni con altri gruppi criminali operanti nella provincia di Vibo Valentia», come le cosche di Tropea, i Barba di Vibo Valentia o i Bonavota di Sant’Onofrio, con Saverio Razionale di San Gregorio D’Ippona.
«Luigi Mancuso ha saputo imporsi»
Le dichiarazioni dei collaboratori, unite alle prove intercettive e ai pedinamenti «consentono di affermare, senza ombra di dubbio, che Luigi Mancuso, nella sua veste indiscussa di capo della Locale di Limbadi, aveva legami con altri gruppi criminali organizzati, sviluppati, questi, grazie alle sue doti diplomatiche e al carisma che contraddistingue la sua figura; sennonché, ancora una volta, a parere del Collegio tali relazioni sono meramente il frutto di quella fisiologica costante ricerca di punti di incontro fra consorterie contrapposte, necessari al fine di evitare inutili attriti e scontri nella gestione del territorio e sulle conseguenti attività illecite ivi perpetrate. Luigi Mancuso, infatti, ha saputo “imporsi” quale vero e proprio punto di riferimento della criminalità organizzata in virtù delle sue indiscutibili doti carismatiche che gli hanno consentito, nel corso del tempo, non solo di intermediare all’interno del territorio vibonese, ma anche di sciogliere problematiche e contrasti con le cosche reggine, tanto che queste ultime hanno da sempre visto in lui la figura idonea a dirimere controversie o, comunque, una persona in grado di indirizzarle nelle loro attività illecite».
«Non era al vertice della ‘ndrangheta unitaria»
Nonostante questo carisma criminale riconosciuto ovunque che lo ha reso «un vero e proprio punto di riferimento per chiunque operi illecitamente a Vibo Valentia» ritengono i giudici, che non vi siano elementi che dimostrino che Luigi Mancuso si trovasse al vertice della piramide mafiosa: «Le mediazioni intavolate dal Mancuso non ne determinano, ipsofacto, l’incasellamento in posizione apicale all’interno di una struttura verticistica, a sua volta in grado, ricorrendo al cosiddetto “metodo mafioso”, di esercitare pressioni tali da indurre le altre cosche in una vera e propria condizione di assoggettamento».
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