Petrol Mafie, la sentenza che ha assolto Solano dalle accuse più gravi e l’ha condannato a un anno per corruzione elettorale
I giudici del Tribunale di Vibo depositano le motivazioni del verdetto con il quale nel dicembre scorso hanno chiuso in primo grado la storica inchiesta della Dda di Catanzaro. Per l'ex presidente della Provincia escluse le aggravanti mafiose ma provate «le pressioni illecite esercitate su alcuni consiglieri comunali nelle elezioni provinciali del 2018»
Sono state depositate dal Tribunale collegiale di Vibo Valentia le motivazioni della sentenza relativa al processo nato dall’operazione “Petrol Mafie” – tra le più importanti di sempre portate a termine dalla Dda di Catanzaro – emessa l’1 dicembre dello scorso anno. Oltre mille pagine di motivazioni per spiegare il percorso logico-giuridico seguito dal Collegio (presieduto dal giudice Gianfranco Grillone) al fine di affermare la penale responsabilità degli imputati e l’esclusione di alcune contestazioni per altri. Tra gli imputati di spicco del processo figurava l’ex presidente della Provincia di Vibo Valentia (ed attuale sindaco di Stefanaconi), Salvatore Solano, che è stato condannato a un anno per il reato di corruzione elettorale, incassando l’esclusione dell’aggravante mafiosa e l’assoluzione dai reati di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e di concorso in turbativa d’asta con l’aggravante mafiosa.
Corruzione elettorale provata per D’Amico e Solano
I giudici ritengono provato uno specifico capo d’imputazione che fa riferimento alle elezioni dell’ottobre 2018 quando alla presidenza della Provincia di Vibo Valentia è stato eletto Salvatore Solano, sindaco di Stefanaconi, all’epoca sostenuto da Forza Italia. Per il Tribunale di Vibo le intercettazioni “denotano l’affinità emotiva tra l’odierno imputato Solano e gli ambienti della criminalità organizzata, oltre a certificarne la piena consapevolezza in ordine alla caratura criminale di Giuseppe D’Amico e alle modalità con cui avrebbe procacciato i voti: in un simile contesto sarebbe stato perfettamente inutile – oltre che rischioso – discutere per telefono delle minacce ovvero delle pressioni illecite che D’Amico avrebbe dovuto esercitare nei confronti dei consiglieri comunali del Vibonese”. Ma per i giudici vi è molto di più nella vicenda e lo mettono nero su bianco nelle motivazioni della sentenza. “Come se non bastasse, la responsabilità di Salvatore Solano nell’imputazione può ricavarsi dal progressivo di un’intercettazione del 2018 da cui emerge che l’odierno imputato riceveva dal sindaco di Capistrano una fotografia – si legge in sentenza – ritraente la scheda elettorale, vergata con la preferenza accordata al candidato Solano”. Per il Tribunale, nella perizia trascrittiva “l’intercettazione si colloca nel primo pomeriggio del 31 ottobre 2018, in orario pienamente compatibile con la chiusura delle operazioni elettorali – concluse nella mattinata della stessa giornata –, circostanza quest’ultima che Solano non poteva ignorare. Anche tale circostanza – rimarcano i giudici in sentenza – costituisce prova indiretta delle pressioni illecite esercitate dall’imputato per condizionare il voto nelle elezioni dell’ottobre 2018”. Sindaco di Capistrano era all’epoca Marco Martino (non coinvolto nell’inchiesta) e la cui amministrazione è stata sciolta per infiltrazioni mafiose nell’ottobre dello scorso anno.
I voti e le intercettazioni
Giuseppe D’Amico, primo cugino di Salvatore Solano, è stato condannato a complessivi 30 anni di reclusione per associazione mafiosa e altri reati legati al traffico di prodotti petroliferi e di stupefacenti. Viene tuttavia riconosciuto colpevole anche per il reato di concorso in corruzione elettorale insieme a Salvatore Solano. Per i giudici, infatti, “sussistono i presupposti per affermare la penale responsabilità di Giuseppe D’Amico poiché l’attività tecnica ha permesso di cristallizzare alcune frasi dal tenore inequivocabile, intenzionalmente rivolte dall’odierno imputato ad alcuni consiglieri comunali, per condizionarne l’esercizio del diritto di voto nella competizione elettorale del 31 ottobre 2018”. I giudici fanno quindi menzione alle telefonate intercorse tra Giuseppe D’Amico e l’allora consigliere comunale di Vibo Francescantonio Tedesco, così come quella tra lo stesso D’Amico e il consigliere Antonio Mondella di Francica. Ad avviso del Tribunale “per quanto le conversazioni non esprimono contenuti esplicitamente minacciosi, si ritiene che le stesse possano essere valorizzate ai fini della prova del reato in esame, assumendo valore esplicativo delle pressioni illecite esercitate dall’odierno imputato D’Amico – teoricamente estraneo al bacino elettorale al quale si sarebbe dovuto rivolgere il cugino – nei confronti dei consiglieri comunali.Siffatta conclusione può essere sostenuta valorizzando i toni perentori ed impositivi utilizzati da Giuseppe D’Amico nelle conversazioni”.
Il condizionamento della campagna elettorale
Per il Tribunale, dunque, “nessun dubbio residua sul ruolo assunto da Giuseppe D’Amico nella competizione elettorale del 31 ottobre 2018, avendo sostenuto attivamente la candidatura di Salvatore Solano a presidente della Provincia di Vibo Valentia. Ciò emerge nitidamente da un’intercettazione laddove Salvatore Solano si rivolgeva a D’Amico in questi termini: “Lavoriamo, stiamo lavorando nel nostro piccolo umilmente e facciamo la nostra parte. Tu fai la parte tua e non ti preoccupare”. Ebbene, le conversazioni richiamate – rimarca la sentenza – dimostrano che Giuseppe D’Amico contribuiva alla campagna elettorale in forza di un esplicito mandato: “Tu fai la parte tua e non ti preoccupare”. Ciò posto, per quanto nelle conversazioni intercettate tra Salvatore Solano e Giuseppe D’Amico – scrivono i giudici in sentenza – non si rinvengono riferimenti – neanche impliciti – a minacce o pressioni illecite ai danni dei consiglieri comunali della provincia, può ritenersi che il futuro presidente dell’ente provinciale fosse consapevole delle modalità attraverso cui il cugino avrebbe procacciato i voti”.
Esclusa l’aggravante mafiosa
I giudici hanno tuttavia deciso di escludere le aggravanti mafiose nel reato di concorso in corruzione elettorale. Per il Tribunale, infatti, nel caso in esame ci si trova dinanzi ad una “manifestazione di un rapporto di cointeressenza biunivoca tra gli odierni imputati D’Amico e Solano, originato non tanto dall’appartenenza del D’Amico ad ambienti della criminalità organizzata, quanto dal rapporto di parentela intercorrente tra i soggetti coinvolti”. Al tempo stesso per i giudici – che hanno assolto Solano dalle altre due contestazioni: corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio e concorso in turbativa d’asta con l’aggravante mafiosa – l’ipotesi investigativa di uno stabile asservimento di Solano agli interessi di D’Amico, una volta eletto presidente della Provincia, “non ha trovato riscontro in sede dibattimentale”.
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