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Omicidio Russo a Tropea: l’istanza di revisione del processo alla Corte d’Appello di Napoli

Il caso riaperto dalla Cassazione e dalle dichiarazioni di Emanuele Mancuso. La principale teste dell’accusa pagata dal presunto mandante per accusare falsamente Raffaele Calamita?

Omicidio Russo a Tropea: l’istanza di revisione del processo alla Corte d’Appello di Napoli
Nei riquadri da sinistra Raffaele Calamita, la vittima Salvatore Russo e Emanuele Mancuso
Salvatore Russo

Sarà la Corte d’Appello di Napoli a dover decidere sull’ammissibilità o meno dell’istanza di revisione del processo avanzata dai difensori nell’interesse di Raffaele Calamita, 35 anni, di Tropea, condannato in via definitiva per l’omicidio di Salvatore Russo, freddato con quattro colpi di pistola a Tropea il 10 settembre 2013. Una competenza stabilita dalla quinta sezione penale della Cassazione che aveva annullato con rinvio la decisione della Corte d’Appello di Salerno che il 9 febbraio 2002 si era pronunciata per l’inammissibilità dell’istanza di revoca della sentenza definitiva con la quale il 26 giugno 2016 la Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro ha condannato Raffaele Calamita a 16 anni di reclusione. Decisive per riaprire il caso, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso che, ad avviso della Suprema Corte, non sono state ben valutate dalla Corte d’Appello di Salerno e da qui la decisione di investire la Corte d’Appello di Napoli che dovrà ora valutare – il 28 maggio prossimo – l’ammissibilità o meno dell’istanza di revisione del processo. Istanza di revisione che si fonda sulle dichiarazioni rilasciate in altro procedimento – successivamente all’intervenuta definitività della sentenza di cui viene richiesta la revoca – dal collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, il quale ha riferito de relato sull’identità del presunto mandante dell’omicidio e sul fatto che la compagna della vittima, teste oculare del delitto, sarebbe stata indotta ad identificare nel Calamita l’autore del reato.

Raffaele Calamita

Per la difesa di Calamita, quando Emanuele Mancuso si è espresso in riferimento all’induzione della teste Gospodinova che “così si diceva”, in realtà lo stesso voleva fare riferimento alle medesime fonti da cui ha riferito di aver mutuato l’informazione relativa all’identità del mandante del delittoossia i propri familiari ed il figlio della vittima.
I giudici del merito per la difesa avrebbero anche travisato l’istanza che, contrariamente a quanto sostenuto nell’ordinanza di rigetto, ha espressamente richiesto l’assunzione del collaboratore. Il provvedimento impugnato sarebbe infine contraddittorio laddove ha proceduto comunque alla valutazione comparativa tra il contenuto della prova nuova e il compendio probatorio originario e comunque non ad una valutazione unitaria di quest’ultimo e dei nova. La Cassazione ha ritenuto fondato e meritevole di accoglimento il ricorso di Raffaele Calamita in quanto in seguito alla scoperta di una prova nuova la valutazione preliminare è tesa soltanto a riconoscere l’eventuale sussistenza di un’infondatezza rilevabile ictu oculi, mentre gli altri apprezzamenti sono riservati al giudizio di merito da compiersi nel contradditorio fra le parti. Per la Suprema Corte, la Corte territoriale non ha invero interpretato correttamente tali consolidati principi, mentre la motivazione del provvedimento impugnato non va esente dalle censure sulla sua tenuta logica mosse dal ricorrente. Nella specie il nuovo elemento di prova, invero, era rappresentato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, il quale in un diverso procedimento ha riferito – ha sottolineato la Cassazione – di avere egli appreso che il mandante dell’omicidio doveva identificarsi in Francesco La Rosa, fratello di Tonino e che la principale teste di accusa (la teste oculare compagna della vittima) era stata indotta dal predetto mandante, in cambio di un corrispettivoad accusare falsamente del delitto il Calamita.

Emanuele Mancuso

Orbene, deve ravvisarsi un errore metodologico da parte del giudicante nel riconoscere solo per la prima delle informazioni sopra riportate (quella relativa all’identificazione del mandante), una fonte conoscitiva certa, per denegarne invece la sussistenza in relazione alla seconda informazione allegata (quella dell’avvenuta subornazione della teste). Solo una lettura disgiunta delle due parti della deposizione, invero, porta a ritenere certe solo le fonti della prima informazione, identificate nel figlio della vittima (Pasquale Russo) e nei familiari dello stesso Mancuso, e non anche di quella relativa alla presunta subornazione. Si tratta però di una lettura – sottolinea ancora la Cassazione – che non pare coerente in primo luogo con il dato testuale, stante la indubbia correlazione tra l’indicazione specifica delle “voci” degli informatori con il successivo “così si diceva”, e poi con la progressione della narrazione in cui in un crescendo di allegazioni (intervallate dal dato riportato correttamente da Mancuso secondo cui la teste non avrebbe accusato Calamita nella prima deposizione resa, ma solo nella seconda) il dichiarante rappresenta il fatto in sé decisivo da prospettare al giudice (“credo che sia stato condannato un ragazzo, un tossicodipendente. . ”). La nuova prova per la Cassazione presenta “connotati di decisività e persuasività da valutarsi anche all’interno del contesto probatorio già acquisito, sotto il profilo della affermata credibilità della teste rispetto ad una dichiarazione accusatoria resa non nell’immediatezza, ma nel corso della seconda deposizione e alle giustificazioni a ciò addotte, smentite dai familiari della vittima) e da riconsiderarsi in prospettiva della conversazione numero 104 del 2/10/2012 registrata tra i fratelli della vittima tre giorni prima delle sommarie informazioni della Gospodinova (e in cui costoro riferiscono di un imminente incontro della teste con taluno che dovrà dirle in merito al delitto)”.
Da qui l’annullamento del rigetto alla revisione del processo e il rinvio alla Corte d’Appello di Napoli.

Da ricordare che in primo grado, al termine del processo celebrato con rito abbreviato dinanzi al gup del Tribunale di Vibo, l’imputato era stato condannato a 24 anni di carcere, mentre l’allora pm della Procura di Vibo, Maria Gabriella Di Lauro, aveva chiesto la pena dell’ergastolo. In Appello, gli avvocati Enzo Galeota e Salvatore Staiano erano riusciti a far ottenere all’imputato le attenuanti generiche e l’esclusione della premeditazione e la pena per Raffaele Calamita era così scesa a 16 anni di reclusione. Verdetto poi confermato dalla Cassazione. Conosciuto come “U meleu”, Salvatore Russo – con piccoli precedenti legati agli stupefacenti – sarebbe stato ucciso per una vendetta maturata negli ambienti della criminalità. Un mese dopo il delitto i carabinieri fermarono Raffaele Calamita, detto “Spillo”, grazie alle dichiarazioni della testimone. La vittima era stata uccisa a pochi metri dal portone di casa in località Vulcano di Tropea. I familiari della vittima si erano costituiti parti civili con l’avvocato Patrizio Cuppari.

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