Rinascita Scott, depositate le motivazioni della sentenza d’appello con rito abbreviato
«A Vibo mafiosi di alto rango. Tutti rispondevamo alle regole di Polsi». Confermata l'unitarietà della 'ndrangheta
di Alessia Truzzolillo
‘Ndrangheta quale criminalità organizzata calabrese retta da regole unitarie e governata dal Crimine di Polsi a San Luca. Non fa eccezione la ‘ndrangheta del Vibonese, retta da una struttura chiamata “Provincia” rispondente sempre a Polsi. Ne sono convinti i giudici della Corte d’Appello di Catanzaro – Caterina Capitò presidente, Antonio Giglio e Carlo Fontanazza a latere – che hanno emesso la sentenza del processo di secondo grado per la maxioperazione antimafia Rinascita Scott, proveniente dal troncone celebrato in primo grado con rito abbreviato. I magistrati, nelle motivazioni della pronuncia, che ha confermato le condanne per associazione mafiosa disposte in primo grado, si soffermano in particolare sulla testimonianza del collaboratore di giustizia Bartolomeo Arena il quale nell’interrogatorio del 5 novembre 2019 ha specificato che, sebbene a Vibo Valentia non esistesse un vero e proprio “locale” di ‘ndrangheta riconosciuto, sia Domenico Camillò che Raffaele Franzè (quest’ultimo deceduto) erano riconosciuti a Polsi quali ‘ndranghetisti di alto rango, per poi precisare che anche il “buon ordine” è un “istituto” della ‘ndrangheta riconosciuto dal Crimine di Polsi. Le parole di Arena sono il filo conduttore di un’analisi che da Vibo si snoda fino al Reggino e racconta di rapporti e distinzioni tra i Locali di ’ndrangheta ufficiali e le aggregazioni non riconosciute.
Arena: «Camillò e Franzé riconosciuti a Polsi»
«Nonostante il Locale dai noi formato a Vibo nel 2012 non è mai stato riconosciuto dalla ‘ndrangheta di Polsi – spiega il collaboratore di giustizia –, comunque i suoi promotori principali, ossia mio zio Domenico Camillò e Lele Franzé erano riconosciuti a Polsi quali ‘ndranghetisti di alto rango. Chiarisco che il riconoscimento di un locale, pur essendo importante, segna soltanto un possibile passaggio nelle dinamiche ‘ndranghetistiche di un certo territorio, fermo restando che stiamo sempre parlando della stessa ‘ndrangheta di Polsi, nei quali noi tutti ci riconoscevamo, delle stesse regole e della partecipazione allo stesso organismo criminale, tant’è che nelle copiate delle nostre doti vi erano soggetti della Provincia di Reggio Calabria le cui doti erano riconosciute dal Crimine di Polsi».
«La differenza tra “buon ordine” e locale riconosciuto»
«Anche il “buon ordine” – prosegue Arena – è comunque un “istituto” sempre della stessa ‘ndrangheta, che è previsto dalle regole di Polsi ed il Crimine di Polsi deve sapere e sa dell’esistenza del “buon ordine” e deve sapere e sa chi ne sono i principali referenti e responsabili, perché nella ‘ndrangheta si deve sempre sapere con chi si deve parlare. Alla fine la differenza tra un “buon ordine” (o locale non riconosciuto) e il locale riconosciuto non è tantissima, si tratta di due possibili momenti della vicenda criminale di un territorio». C’è tuttavia, e il pentito lo sottolinea, una distinzione formale tra Locali riconosciuti e Locali non ufficiali: «Il mancato riconoscimento da Polsi comportava solo una limitazione nei rapporti con le altre locali di altri territori, ma si avevano anche meno obblighi, dal punto di vista dell’aiuto che ci si poteva richiedere ed anche di tipo economico. Pertanto, noi rispondevamo comunque alle medesime regole e alla stessa linea di potere della ‘ndrangheta reggina. Un locale può essere chiuso o sospeso o non riconosciuto anche perché c’è una guerra interna in atto, e sicuramente la situazione instabile che c’era all’interno della locale di Vibo Valentia non ha giocato a favore del suo riconoscimento, che comunque non avevamo ancora chiesto».
«Sistema unitario»
Secondo i giudici queste affermazioni di Arena sono compatibili anche con le argomentazioni delle difese degli imputati che hanno proposto appello. Gli avvocati, infatti, hanno evidenziato – per dimostrare la non unitarietà della ‘ndrangheta – che tra le cosche vi sono stati momenti di scontro, guerre aperte, scissioni.
Questo, per la Corte d’Appello di Catanzaro, non entra in contrasto con «l’esistenza di un sistema unitario associativo e di regole comuni e gerarchie». Il dato, in sostanza, non è in contrasto con le possibili guerre interne alle singole articolazioni, come non risulta in contrasto con l’unitarietà della ‘ndrangheta che alcuni gruppi criminali, sempre qualificabili ai sensi dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa, ndr), presenti in alcuni territori, fatichino ad avere maggiore riconoscimento formale».
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