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Rinascita Scott: richieste di condanna in Assise per cinque omicidi e un sequestro di persona

Chiesti cinque ergastoli. Lupare bianche ed agguati decisi dai Bonavota contro i Cracolici, dai clan Accorinti e Razionale contro i Soriano e dalla cosca Lo Bianco per punire un affiliato ritenuto omosessuale

Rinascita Scott: richieste di condanna in Assise per cinque omicidi e un sequestro di persona
Nei riquadri da sinistra Giuseppe Accorinti, Saverio Razionale e Domenico Bonavota
Andrea Mantella

Requisitoria della Dda di Catanzaro nel processo Rinascita-Scott per il troncone con il quale sono contestati cinque omicidi e un sequestro di persona. Dinanzi alla Corte d’Assise di Catanzaro, le richieste di pena interessano diversi imputati accusati di aver preso parte agli omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano avvenuti il 9 febbraio 2002 a Vallelonga, alla scomparsa per lupara bianca di Filippo Gangitano, sparito da Vibo Valentia nel gennaio 2002, e alle “lupare bianche” ai danni di Roberto Soriano e Antonio Lo Giudice, uccisi il 6 agosto 1996. Fatti di sangue diversi ma trattati in un unico processo, unitamente ad un sequestro di persona. La pena dell’ergastolo è stata chiesta per: Giuseppe Accorinti, 64 anni, di Zungri, Saverio Razionale, 63 anni, di San Gregorio d’Ippona, Domenico Bonavota, 43 anni, di Sant’Onofrio, Antonio Ierullo, 53 anni, di Vallelonga, Vincenzo Barba, 71 anni, di Vibo Valentia. Richiesta di condanna a 14 anni di reclusione per il collaboratore di giustizia Andrea Mantella, 51 anni, di Vibo Valentia. Richiesta di condanna a 30 anni di reclusione a testa per: Antonio Vacatello, 59 anni, di Vibo Marina, Pantaleo Maurizio Garisto, 40 anni, di Zungri, Valerio Navarra, 29 anni, di Pernocari. Richiesta di assoluzione per Paolino Lo Bianco, 60 anni, di Vibo Valentia e per Filippo Catania, 72 anni, di Vibo Valentia.

Gli omicidi Cracolici e Lo Giudice

Alfredo Cracolici

Per la prima volta in sede giudiziaria sono stati quindi contestati gli omicidi di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano. Quello di Raffaele Cracolici (maggio 2004 a Pizzo Calabro) era infatti già stato contestato con le operazioni “Uova del drago” e “Conquista”. Secondo l’accusa, mandante del fatto di sangue sarebbe stato Domenico Bonavota, 43 anni, di Sant’Onofrio, (per il quale è stata chiesta la condanna all’ergastolo) mentre Antonio Ierullo, 53 anni, di Vallelonga (anche per lui richiesta di condanna all’ergastolo), avrebbe fornito appoggio logistico durante le fasi propedeutiche al duplice omicidio e sarebbe stato poi l’autore materiale della sparatoria che ha cagionato la morte di Alfredo Cracolici e Giovanni Furlano contro i quali sono state esplose raffiche di fucile mitragliatore kalashnikov e colpi di fucile calibro 12, tanto da lasciare sul posto dell’agguato – in contrada Muraglie di Vallelonga – i bossoli di oltre venti colpi. A recarsi insieme a Ierullo a fare un sopralluogo a Vallelonga ci sarebbe stato anche un soggetto di Sant’Onofrio rimasto al momento ignoto. A permettere la ricostruzione del duplice omicidio, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Andrea Mantella e Francesco Costantino, ma anche le dichiarazioni rese a suo tempo da Bruno Di Leo di Sant’Onofrio.

Il tranello a Soriano e Lo Giudice

Roberto Soriano

Dal verbale di Andrea Mantella: «Peppone tese un tranello ai due, Lo Giudice e Soriano, dicendo loro di tornare dopo un paio di giorni perché intanto avrebbe cercato di trovare la macchina rubata. Invece di fare ciò, avvisò Saverio Razionale». Fu così che Lo Giudice e Soriano, due giorni dopo, in un casolare, si sarebbero trovati dinanzi ad Accorinti, Razionale e altri uomini. E qui inizia una narrazione raccapricciante: «Giunti al casolare fu detto subito a Lo Giudice di andarsene perché la cosa non lo riguardava ma, per come mi dissero sia Razionale che Accorinti, lui non se ne volle andare, dicendo che Roberto Soriano era un bravo ragazzo». Così Andrea Mantella spiega che Antonio Lo Giudice fu ucciso perché non volle abbandonare l’amico al suo destino: «Non mi è stato detto se Antonio Lo Giudice è stato sparato o strangolato, ma so che è stato ucciso sulla sedia e Accorinti mi disse che era morto con il sorriso sulle labbra». Fu una morte rapida, diversamente da quella di Roberto Soriano. Roberto Soriano, invece, secondo Andrea Mantella, prima di essere ucciso sarebbe stato torturato usando una tenaglia di quelle per tagliare le unghie alle vacche affinché confessasse la sua responsabilità per gli agguati orditi contro gli stessi Accorinti e Razionale, su ordine di Peppe Mancuso: «Alla fine confessò. E mentre lo torturavano li pregava di ucciderlo».

Gli omicidi di Soriano e Lo Giudice

Giuseppe Accorinti

Porta la data del 6 agosto 1996 l’omicidio di Antonio Lo Giudice e la contestuale scomparsa per lupara bianca di Roberto Soriano. Il collaboratore di giustizia, Andrea Mantella, ha rivelato: «In quel periodo rubarono la macchina alla compagna di Antonio Lo Giudice, uomo d’onore di Piscopio, che faceva l’infermiera all’ospizio di Rione Carmine». Lo Giudice, visto che specializzati nei furti d’auto erano all’epoca i Soriano di Filandari, ai Soriano si rivolse e, in particolare, a Roberto. Ma Roberto Soriano di quella macchina non sapeva nulla e, così, si offrì – spiega sempre Mantella – di accompagnare Lo Giudice dal boss degli Accorinti di Zungri, Peppone, che nel frattempo però era stato informato dallo stesso Razionale che Giuseppe Mancuso lo voleva eliminare e che era stato proprio Roberto Soriano a sparargli l’anno precedente (il 29 settembre 1995) su mandato del boss di Limbadi. La vendetta di Giuseppe Mancuso nei confronti di Saverio Razionale sarebbe scattata poiché il boss di Limbadi aveva chiesto a Razionale di aiutarlo ad eliminare Giuseppe Accorinti. Razionale aveva però avvertito lo stesso boss di Zungri del progetto omicidiario.

La scomparsa da Vibo di Gangitano

Vincenzo Barba

Quando il 27 gennaio 2002 venne denunciata la scomparsa di Filippo Gangitano, si pensò ad un regolamento di conti in seno alla criminalità organizzata, che magari poteva aver tolto preventivamente di mezzo uno che si riteneva potesse pentirsi. Quasi diciotto anni dopo, invece, è Rinascita-Scott a fare luce ed a mandare a giudizio dinanzi alla Corte d’Assise: Vincenzo Barba, alias “il Musichiere”, Filippo Catania, Paolino Lo Bianco e Andrea Mantella, tutti di Vibo Valentia. Per i primi tre la Dda di Catanzaro ha chiesto la condanna all’ergastolo. Fra i mandanti del fatto di sangue, anche il boss Carmelo Lo Bianco, alias “Piccinni”, deceduto nel 2004 in carcere. I vertici del clan Lo Bianco – ha dichiarato Andrea Mantella – decisero che Gangitano andava eliminato perché «omosessuale». Che fosse vero o meno, poco importava. «La città era piena» e ciò divenne una sentenza senza appello, perché la ‘ndrangheta aveva delle regole e bisognava «dare conto a San Luca», che non accettava gay tra gli affiliati. Di vero c’era che Filippo Gangitano, allora trentacinquenne, aveva un amico più giovane dal quale non si separava quasi mai. E quel legame finì con l’alimentare le voci, voci che per il clan Lo Bianco-Barba si tradusse in una condanna a morte.
Andrea Mantella ha sottolineato agli inquirenti di aver provato a salvare la vita del cugino, ma i suoi sforzi furono inutili e così egli stesso dovette farsi carico di attirarlo in una trappola, coinvolgendo con l’inganno pure i suoi fratelli, ignari del piano, per consegnarlo al fucile di colui il quale l’avrebbe ammazzato: Francesco Scrugli, a sua volta assassinato, dieci anni dopo, nella guerra di mafia tra i Patania di Stefanaconi ed il clan dei Piscopisani. Andrea Mantella ha spiegato che Gangitano fu atteso da Scrugli, nascosto dietro una balla di fieno, nella masseria. Sparò con un fucile calibro 12 e lo colpì alla testa. Esanime, venne messo in un sacco, caricato su una carriola e portato dall’altra parte della strada, dove fu seppellito. Ma Mantella aggiunge un altro particolare agghiacciante.  Randagi e animali selvatici, avvertendo l’odore del cadavere, nascosto sotto pochi centimetri di terra, scavarono e, dopo qualche giorno, fecero affiorare alcuni resti, facendone scempio. Così il collaboratore di giustizia avrebbe dato ordine di bruciare il corpo assieme ad alcuni vecchi pneumatici e di sotterrare nuovamente ciò che restava. 

Il sequestro di persona

Antonio Vacatello

La vicenda parte dalla contestazione di estorsione aggravata dalle modalità mafiose mossa nei confronti di Antonio Vacatello, 58 anni, ritenuto dagli inquirenti il capo ‘ndrina di Vibo Marina strettamente collegato con il boss di Zungri Giuseppe Accorinti. Secondo l’accusa, Antonio Vacatello avrebbe cercato di ottenere con modalità delittuose la restituzione o il pagamento di somme di denaro – circa seimila euro – da parte di Rocco Ursino, vibonese residente a Imbersago. La condotta copre un arco temporale che va dal 14 settembre 2016 al 12 ottobre 2016 e porta quale luogo di commissione Seregno (provincia di Monza) e Vibo Marina. Per ottenere la restituzione della somma di denaro sarebbe stato compiuto un vero e proprio sequestro di persona. Tale reato viene contestato, in concorso fra loro, ad Antonio VacatelloPantaleo Maurizio Garisto, 40 anni, di Zungri, Luciano Macrì, 54 anni, di Vibo Marina (già giudicato con rito abbreviato e condannato a 20 anni in appello anche per altri reati), Valerio Navarra, 29 anni, di Pernocari, Saverio Sacchinelli, 40 anni, di Pizzoni (quest’ultimo già giudicato con rito abbreviato e condannato in appello a 13 anni e 4 mesi). Vacatello sarebbe stato il mandante e il coordinatore del sequestro di persona. Tutti gli imputati si sarebbero recati a Cernusco sul Naviglio per effettuare materialmente il sequestro di persona. Rocco Ursino sarebbe stato quindi portato in una casa di Seregno, in provincia di Monza, e qui immobilizzato e pestato. Poi il trasferimento con la forza in Calabria per rimanere nell’abitazione dei propri genitori impedendogli ogni libertà di movimento se non avesse pagato la somma asseritamente dovuta. Luciano Macrì si sarebbe dato da fare, secondo l’accusa, per contattare a Vibo la madre di Rocco Ursino informandola del debito del figlio al fine di intimorire la donna e costringerla a pagare.
Nel collegio di difesa ci sono gli avvocati: Francesco Muzzopappa, Sergio Rotundo, Vincenzo Gennaro, Gianni Puteri, Nicola Cantafora, Mario Murone, Luca Cianferoni, Francesco Calabrese, Salvatore Staiano, Diego Brancia, Antonio Galati.

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