Scandalo “strada del Mare”: colpe anche della Provincia, la Corte dei Conti riduce la condanna al rup
Responsabilità gravi emergono nei confronti dell’ente appaltante così come dell’impresa che ha abbandonato i lavori dell’opera pubblica più costosa del Vibonese rimasta irrealizzata e che avrebbe dovuto collegare Pizzo a Rosarno passando lungo la costa
Nuova sentenza della Corte dei Conti – questa volta in appello dopo un precedente annullamento con rinvio ad opera della prima sezione giurisdizionale centrale della Corte dei Conti di Roma – per lo scandalo della mai realizzata “Strada del Mare” che, nelle intenzioni della Provincia di Vibo Valentia, avrebbe dovuto collegare Pizzo a Rosarno passando lungo la costa. I giudici contabili hanno ridotto la condanna nei confronti dell’allora responsabile unico del procedimento – l’ingegnere Antonio Francolino, 57 anni, funzionario della Provincia – da 1.600.000,00 euro a 200mila euro (oltre gli interessi decorrenti dal deposito della sentenza e sino al soddisfo). La somma è dovuta all’ente Provincia a titolo di danno erariale. Il danno da mancata ultimazione dell’opera è stato quantificato inizialmente in euro 10.508.949,39. Il progetto era stato approvato fin dal 1988 per un valore di circa 70 miliardi di lire, la più costosa opera pubblica mai pensata per il Vibonese. Il progetto preliminare, adeguato negli anni, è stato infine approvato come definitivo, in data 6 dicembre 2004, per un valore complessivo di euro 30.000.000,00. Per i giudici contabili, la condotta dell’ing. Francolino è stata caratterizzata da “colpa grave” relativamente ai progetti definitivo ed esecutivo della Strada del Mare. Condotta che si “palesa lontana dai canoni di perizia, prudenza e diligenza imposti dall’ordinamento ad ogni professionista nello svolgimento della propria attività”. In definitiva, la mancata acquisizione, da parte del rup Francolino, dei documenti necessari al completamento del progetto definitivo ed esecutivo e la conseguente validazione di detti progetti lacunosi deve necessariamente considerarsi “quale concausa efficiente nel verificarsi del danno contestato, con inevitabile conferma della sentenza di primo grado relativamente alla condanna del Francolino sul punto”. Nessuna condotta negligente, invece, può essere imputata al rup Francolino con riferimento all’approvazione del progetto preliminare. Rimane, infatti, “non contestato che la Giunta provinciale di Vibo Valentia abbia proceduto all’approvazione del progetto preliminare pur in assenza di verifica da parte del rup”.
Le colpe della Provincia e della ditta Restuccia
La Corte dei Conti in sentenza ha quantificato il danno finale per la Provincia in 7 milioni di euro, con l’opera che è stata progettata senza alcuna copertura finanziaria. La lacunosità della condotta tenuta dalla amministrazione provinciale – all’epoca guidata dal presidente Gaetano Ottavio Bruni – nell’intera gestione dell’appalto è stata addirittura stigmatizzata dalla stessa Commissione di indagine, nominata dal commissario straordinario della Provincia, Mario Ciclosi, nel 2013. Se le interdittive antimafia nei confronti dell’appaltatore – impresa Vincenzo Restuccia – hanno rallentato i lavori, i giudici contabili non mancano di sottolineare “l’estrema imprudenza con la quale ha agito l’appaltatore al momento della ripresa dei lavori nel mese di febbraio 2010 allorquando, palesando la necessità di concludere al più presto la realizzazione dell’opera, l’appaltatore è voluto ricorrere all’uso di esplosivo per aprire varchi nella galleria tra Joppolo e Coccorino, nonostante il divieto espresso dal sindaco di Joppolo e le indicazioni offerte dal rup e dal capitolato speciale di utilizzare una normale fresatrice. Si ricorda inoltre che, pur dopo l’approvazione della perizia di variante da parte dell’amministrazione (espressamente richiesta dall’appaltatore per affrontare le “sorprese” rilevate in corso d’opera), in data 21 settembre 2012, l’appaltatore si è rifiutato di proseguire i lavori, abbandonando immotivatamente l’area di cantiere e comunicando successivamente l’avvenuto deposito dell’atto di citazione (3 ottobre 2012). Questo come tanti altri episodi – si legge in sentenza – sembrano rivelare una condotta dell’appaltatore apparentemente non improntata alla buona fede nell’adempimento degli obblighi contrattuali e, pertanto, verosimilmente foriera di una ingente percentuale del danno erariale. Sono stati proprio i progetti posti a base di gara ad essere riconosciuti lacunosi e carenti del corredo documentale necessario ad assicurare la regolare esecuzione degli stessi; ciò consente al Collegio di poter ravvisare anche nella condotta dei progettisti una (astratta) efficienza causale nel verificarsi del danno”. L’incidenza causale della condotta del direttore dei lavori, Giuseppe Teti (venuto a mancare nel novembre 2021), nel verificarsi del danno è stata invece già accertata, in altra sede, con efficacia di giudicato.
Il processo penale finito in prescrizione
Della mancata realizzazione della Strada del Mare – sicuramente uno dei principali scandali del Vibonese – se ne è discusso anche in sede penale, atteso che il 31 ottobre 2019 il gup del Tribunale di Vibo Valentia ha rinviato a giudizio, oltre ad Antonio Francolino e Giuseppe Francesco Teti, anche Antonino Scidà, direttore tecnico delle imprese di Vincenzo Restuccia, e Giacomo Consoli, di Vibo Valentia, ex dirigente dell’ufficio Lavori Pubblici della Provincia di Vibo Valentia. Un quinto indagato – l’imprenditore Vincenzo Restuccia di Rombiolo – era nel frattempo deceduto (27 dicembre 2017). Tuttavia l’8 settembre 2020, il Tribunale collegiale di Vibo Valentia presieduto dal giudice Chiara Sapia (a latere Claudia Caputo e Giorgia Ricotti) ha dichiarato per tutti gli imputati il non luogo a procedere per prescrizione in ordine a tutti i reati contestati. Le ipotesi accusatorie in sede penale partivano dalla gestione della progettazione dell’opera per arrivare sino alla sua approvazione da parte della direzione lavori e del responsabile del procedimento. Secondo quanto accertato dalla Guardia di finanza, in ben undici casi era stato dichiarato lo stato di avanzamento dei lavori che aveva consentito, a favore dell’impresa aggiudicataria, il pagamento di importi nettamente superiori rispetto a quelli corrispondenti al valore dei lavori effettivamente realizzati. Per la Procura, quindi, le somme di ogni singolo stato di avanzamento lavori sarebbero state artatamente “gonfiate” concordando la percentuale da applicare di volta in volta e inserendo indebitamente lavori non previsti nel progetto iniziale, sul falso presupposto che fossero necessari per l’esecuzione a regola d’arte.
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